È come se ci siano stati, in tutti questi anni, due Burani. Due facce della stessa famiglia. Quella che produceva abiti e quella che si dedicava all'azienda come fosse una grande lotteria finanziaria. Dove si poteva guadagnare investendo copiosamente sui propri stessi titoli. E qui il protagonista è Giovanni Burani con la sua passione per la turbofinanza. Una quarantina di acquisizioni, cinque società quotate in meno di dieci anni. E in mezzo a questa corsa parossistica una strana passione: quella per la scommessa su sé stesso e le azioni di casa. Nel 2007, all'apice dello Zenith borsistico quando il titolo Mariella Burani arrivò a toccare i 27 euro, Giovanni Burani comprò e vendette titoli della sua quotata per 5,5 milioni di azioni per un valore di oltre 123 milioni di euro. Una cifra iperbolica pari al 20% del valore di Borsa della società. Per fare un paragone è come se i vertici di Eni si mettessero a fare trading sul loro titolo per un ammontare pari a 14 miliardi di euro. Impensabile. Evento casuale? Affatto.

La giostra del trading
L'andazzo di fare il "market mover" di sé stesso era una consuetudine. Nel 2005 i titoli mossi direttamente dai Burani erano stati 4,97 milioni di pezzi in acquisto e 4,4 milioni in vendita; nel 2006 gli acquisti diretti avevano interessato 6,8 milioni di azioni e le vendite 6,5 milioni con valori scambiati per 130 milioni di euro in acquisto e 122 in vendita. Ancora nel 2008 a crisi non ancora annunciata gli scambi della famiglia hanno riguardato altri 5-6 milioni di pezzi compravenduti. E dato che le azioni di Mariella Burani erano mediamente sui 29 milioni (di cui più di 15 milioni in mano alla famiglia) i Burani muovevano un terzo del flottante. Insomma un continuo e imponente gioco di trading su sé stessi, oggi sotto la lente della Consob e della Procura. Ma a cosa serviva questo frenetico movimento? Ovviamente a guadagnare per sé e per le persone cui Giovanni Burani offriva i suoi pezzi pregiati. Tutte le fonti contattate da «Il Sole 24Ore» descrivono un modus operandi. Giovanni Burani offriva titoli della quotata, ma anche delle scatole non quotate (dalla Bdh cui è stato chiesto il fallimento dalla Procura, alla Bph auto-liquidata da meno di un mese) con la promessa di un riacquisto in tempi successivi a prezzi ovviamente maggiorati. Una sorta di investimento garantito a una pletora di soggetti. In gergo contratti con l'elastico: opzioni call and put sui titoli delle società della galassia che finché i valori salivano accontentavano tutti. Il problema è che questo gioco funzionava al rialzo. Se i titoli perdevano quota i Burani dovevano comprare titoli svalutati a prezzi superiori. E questo spiegherebbe in parte il grande attivismo per «stabilizzare i corsi del titolo», così recita il bilancio, nel fare trading su sé stessi. Se il titolo saliva troppo si vendeva, se scendeva troppo si andava in acquisto, come se il mercato non ci fosse.


Le anomalie dei bilanci
E il problema di fare correre i valori di Borsa, serviva anche a celare qualche difficoltà sui conti aziendali. Secondo una fonte autorevole che ha ricostruito per «Il Sole 24 Ore» i bilanci consolidati dell'azienda di Cavriago le prime difficoltà si evidenziano già nel 2005. In quell'anno c'è stata una forte rivalutazione degli asset immateriali. Marchi e avviamenti pagati per le acquisizioni. Beni intangibili che passano da 123 milioni a quasi 300 milioni. Un salto in avanti che pone qualche problema. Qualunque ragioniere ti spiega che in un bilancio prudente il patrimonio netto deve essere più alto dei beni intangibili. Ebbene nel 2005 quegli attivi immateriali erano più alti di ben 55 milioni. E da allora la situazione non è andata che peggiorando. Non solo: dal 2005 in poi grazie alle operazioni finanziarie la società ha incamerato ben 310 milioni di proventi straordinari che hanno di fatto gonfiato il margine operativo lordo, quel parametro che dice quanto guadagni sull'attività industriale. E più il Mol è alto più la società vale in Borsa. Peccato che, se depurato dagli incassi straordinari, il Mol dal 2005 cominci a flettere fino ad andare in rosso già nel 2007. Marchi rivalutati e gli incassi una tantum così contabilizzati, hanno permesso di non evidenziare, secondo fonti vicine agli inquirenti, il vero stato di salute dell'azienda che ha iniziato la china discendente già quattro anni addietro. Ma mentre la situazione patrimoniale si deteriorava, i debiti con le banche andavano al raddoppio da 257 milioni a oltre 500. Una morsa micidiale.

TRADING DI FAMIGLIA
4,97 milioni
Azioni comprate nel 2005
Nel 2005 i titoli mossi direttamente dalla famiglia Burani sono stati 4,97 milioni di pezzi in acquisto e 4,4 milioni in vendita
6,8 milioni
Titoli comprati nel 2006
Nel 2006 gli acquisti diretti della famiglia che controlla il gruppo Burani hanno interessato 6,8 milioni di azioni mentre le vendite hanno riguardato 6,5 milioni di titoli con valori scambiati per 130 milioni di euro in acquisto e 122 in vendita
180 milioni
La rivalutazione dei marchi
Nel 2005 la società rivaluta marchi e avviamenti per una cifra rilevante: passano da 123 a 300 milioni in un solo anno. Gli attivi immateriali superano così il patrimonio netto di ben 55 milioni. I proventi straordinari per 300 milioni alzano inoltre il valore del Mol celando così le difficoltà patrimoniali dell'azienda
 

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