Continua, fra il silenzio dei politici e del Governo, l'azione di coloro che vogliono distruggere l'Eni. Mi riferisco al piano di smembramento proposto dalla Knight Vinke. Dal denaro che spendono per farsi propaganda sui giornali (italiani e stranieri) si direbbe che si aspettino una remunerazione davvero sontuosa. La cosa non sembrerebbe degna di considerazione, dato che tutti i paesi considerano la loro, o le loro, compagnie petrolifere come la luce dei loro occhi. Basta ricordare come reagì la signora Tatcher, una che di mercato se ne intendeva, alla proposta dei kuwaitiani di entrare nel capitale della British Petroleum. Non solo ai kuwaitiani fu impedito di raggiungere il 30% che sognavano di comperare, ma furono anche costretti a rivendere le azioni che avevano comperato.
L'Italia però, si sa, è sempre diversa. Forse i promotori dello sfascio dell'Eni fanno conto sul proverbiale autolesionismo nazionale. Questi signori propongono, anzitutto, di togliere all'Eni il gas naturale: proprio quello su cui la compagnia è nata, su cui ha creato una delle infrastrutture più efficienti del mondo. Se ciò accadesse, la parte petrolifera internazionale dell'Eni, indebolita dalla mancanza del flusso di cassa del gas, non avrebbe altro da fare che cadere nell'orbita di una qualche multinazionale. Si chiuderebbe così, ignominiosamente, il tentativo dell'Italia di tutelare i propri interessi di importatore di energia.
E il resto dell'Eni – la rete di distribuzione in Italia, la raffinazione e la petrolchimica, la ricerca scientifica, l'ingegneria – che fine farebbe? Non si sa con precisione. Ma certamente senza il gas la compagnia non sarebbe in grado di mantenere una struttura industriale complessa.
Ci sono stati nella storia precedenti molto chiari. Parecchi anni fa, la più grande impresa chimica europea, la famosa Imperial Chemical Industry, cominciò un processo elegantemente chiamato di "demerger" che voleva dire la vendita della parte farmaceutica. Dopo qualche anno, dell'ICI non è rimasto neanche il nome.


Tante buone ragioni per dire no
L'assurdità del piano di smembramento dell'Eni proposto dalla Knight Vinke è così visibile che, se l'Italia avesse un sistema politico normale, nessuno lo prenderebbe sul serio. Ma ciò purtroppo non è. E allora bisogna dire con chiarezza che questo progetto è da respingere, in toto. Vi sono parecchie buone ragioni per farlo, riguardanti l'interesse del paese e non quello di un gruppo più o meno largo di azionisti. In primo luogo, il metano è il combustibile del prossimo futuro: lo dice la ripresa della produzione negli Usa; il ruolo che il gas ha conquistato di primario combustibile per la produzione di calore, industriale e domestico; le preoccupazioni sulla sicurezza degli approvvigionamenti europei e le misure proposte per rimediarvi; lo dice lo sviluppo del trasporto di gas via mare, che porta concorrenza sul mercato. Lo dice, infine, l'importanza che al gas danno le grandi multinazionali, che si vanno impegnando a costruire metanodotti internazionali. Cosa che l'Eni fa da quasi trent'anni.
Togliere il gas naturale all'Eni vuol dire tagliare una gamba alla compagnia, toglierle un flusso di cassa rilevante, ridurne l'ampiezza operativa, la capacita' finanziaria. E con una gamba sola non si puo' che cadere.
L'integrazione fra settori industriali è la struttura di base delle imprese, e le piu' grandi e potenti sono proprio quelle che operano in diversi settori, con prodotti diversi anche se complementari, come sono il gas e il petrolio. A chi andrebbe l'impresa del gas che dovrebbe nascere dalla scissione dell'Eni? A quella cosa nebulosa che si chiama mercato, cioè alla Borsa, esposto alla speculazione? O a qualche personaggio accetto ai politici che attende dietro le quinte? L'esperienza dice che quando un processo di sfasciamento comincia è difficile fermarlo ed è normalmente in grado di arrivare alla conclusione, cioè alla scomparsa dell'impresa.
Ci si deve preoccupare dell'economia italiana, della posizione dell'Italia sul mercato internazionale e della capacita' del paese di riprendere un ritmo di sviluppo che ci permetta di uscire dalla stagnazione. Dopo l'amputazione, l'Eni non avrebbe più ragione di lavorare per il proprio paese. Diventerebbe una compagnia senza patria. Il che, nel campo petrolifero, dove gli accordi per la ricerca e la produzione sono negoziati con l'appoggio fattivo dei Governi, è privo di senso. Il lungo lavoro fatto dall'Italia per diventare un giocatore nell'economia mondiale finirebbe nel nulla.
Il nostro è un paese importatore di energia. E la sicurezza degli approvvigionamenti è in tutto e per tutto basata sulla capacità di muoversi sullo scacchiere mondiale con un minimo di potere e di mezzi finanziari: capacità che oggi risiede nell'Eni e che andrebbe perduta.

Cosa significa per l'Italia restare senza l'Eni
Senza un Eni potente il paese non avrebbe nessuno a rappresentarlo ai tavoli su cui si negoziano gli accordi che regolano il sistema mondiale delle fonti di energia. E' più importante che gli azionisti comperino ognuno una nuova auto giapponese o un'altra villa al mare oppure che l'impresa sia in grado di sviluppare la propria azione nel campo delle fonti di energia? Una grande impresa è uno strumento che produce occupazione e ricerca, crea nuove tecnologie, sviluppa attività a livello mondiale, perché ha la forza di sedere a quei tavoli dove ogni tanto si definiscono le spartizioni delle risorse naturali. L'Eni è l'unica azienda italiana importante in un settore che non è esagerato definire strategico. Ed è interesse precipuo del paese proteggerla e farla sviluppare. La sua crescita negli anni ha realizzato il sogno degli italiani della mia generazione di costruire una grande impresa petrolifera, adesso minacciata dalle cupidigie di tanti che non l'avrebbero mai saputa costruire .

Quello che io considero lo sfascio dell'azienda avrebbe effetti micidiali su tutta l'economia nazionale. Il complesso di imprese che si è formato per servire l'Eni di beni e servizi industriali, in particolare per l'area mineraria, perderebbe il suo principale cliente, con risultati facili da prevedere. Inoltre, dividere un'impresa grande in piccole e medie significa – lo dice l'esperienza – perdere almeno il 30% della forza lavoro. Le nuove imprese partono snelle e senza carichi eccessivi. Un Eni con una gamba sola non avrebbe più la possibilità di mantenere il livello attuale di ricerca scientifico-industriale, facendo perdere al paese uno strumento importante per tenere almeno una posizione di parità con gli altri campioni della tecnologia mondiale. S'aprirebbe un'emorragia di lavoratori qualificati.
Questo sfascio sarebbe giustificato con un maggior numero di imprese presenti in Borsa e una promessa di maggiori dividendi. Ma quando mai imprese più piccole hanno dato dividendi maggiori e più stabili di quelle grandi? Non è proprio nelle grandi dimensioni e nella multisettorialità dell'impresa la migliore garanzia di successo e di dividendi adeguati e costanti? Sembra, questo, un modo per nascondere ben altro, e cioè il fatto che le società che propongono questo genere di operazioni fanno un sacco di soldi preparando le nuove entità ad entrare in Borsa a tutto vantaggio della miriade di consulenti, operatori finanziari, garanti che fluttuano intorno a questi piani di smembramento.

* Colitti, oggi in pensione, ha lavorato nel gruppo Eni fin dai tempi di Enrico Mattei, ricoprendo tra l'altro la carica di presidente di Enichem e di Ecofuel

 

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