«Vogliamo un meccanismo basato su principi comuni da seguire nella soluzione dei fallimenti di banche nazionali», dice Mario Draghi, capo del Financial stability board, a margine dei lavori del World Economic Forum di Davos. Un modello globale anti-crack per i fallimenti bancari. Una proposta seguita da un piccolo giallo tra le nevi svizzere. All'inizio si era diffusa l'opinione che Draghi avesse pensato a una sorta di authority o un'agenzia che abbia il potere, i fondi, il bilancio e le competenze di gestire il fallimento in modo ordinato, ma poi è giunta la precisazione della Banca D'Italia a riportare il tema sui corretti binari di una semplice convergenza di principi.
È un Draghi disteso, sereno, determinato, quello di Davos che ha trasformato l'incontro del WEF in un vertice informale del suo Financial stability board tra i politici (il consigliere economico della Casa Bianca Larry Summers, i ministri delle Finanze francese, Christine Lagarde, e inglese, Alistair Darling) e i maggiori banchieri ed economisti del pianeta, per cercare di tessere la tela di quel nuovo ordine finanziario di cui tutti sentono l'esigenza, ma che non ha ancora trovato una soluzione condivisa per i troppi interessi coinvolti e le divergenze transtlantiche.

Draghi passa nei corridoi del Congress center in un paesaggio innevato e aggiunge dettagli sulle serrate discussioni ai 500 cronisti presenti: «Abbiamo parlato anche della possibilità di avere delle sovratasse sul capitale per gli istituti che sono troppo grandi per fallire, oppure sistemicamente importanti, o anche l'ipotesi di avere un capitale di emergenza per queste banche». Draghi spiega che l'idea fondamentale è comunque quella di avere un «terreno comune» su cui poi ogni paese può essere libero di applicare norme più severe, ma non meno stringenti, su alcune banche, per evitare riforme a macchia di leopardo, visto che gli Usa di Barack Obama stanno pensando di tassare non i profitti delle banche ma le passività, esclusi i depositi, cioè l'esposizione al rischio, uno dei motivi che hanno scatenato la crisi un anno e mezzo fa. «Ho l'impressione – prosegue Draghi – che l'industria stia recependo meglio le implicazioni sistemiche, più che in passato». Ora bisogna comunque passare all'azione, dice il governatore. «Posso dire – aggiunge – che molti progressi sono stati fatti ma c'è bisogno che le autorità finanziarie facciano di più, specialmente nell'area delle regole sul capitale».
Le banche americane e britanniche, presenti in massa, sono preoccupate dalla enorme pressione che dall'opinione pubblica sta montando verso i politici per punire Wall Street. Gli europei invece, per bocca di Sarkozy, sono preoccupati di mosse unilaterali al di la dell'Atlantico che appesantiscano la loro competitività già sotto pressione da Basilea 3.

Poi Draghi prosegue e spiega paziente, vista la complessità del tema, il disegno della riforma e i suoi tre pilastri: «C'è un progetto del Financial stability board che va avanti da 5-6 mesi», spiega il governatore della Banca d'Italia. Un progetto di riforma «diretto a 1) ridurre il rischio di fallimenti di grande dimensione; 2) a ridurre la probabilità di questi fallimenti; 3) a metter in campo dei meccanismi che permettano una gestione ordinata di questi fallimenti».
Anche Dominique Strauss-Kahn, direttore del Fmi invita prima a «non ridurre gli stimoli fiscali» perché le conseguenze sarebbero disastrose, poi a trovare un accordo: «Ci sono voluti dodici anni per costruire le regole di Basilea spero che non ci vogliano altri dodici per costruire una riforma finanziaria. Dobbiamo accelerare». Gli fa eco il presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, secondo cui il sistema finanziario ha bisogno di un «insieme globale di regole che siano coerenti e consistenti». «Se non avremo un sistema di regole globale, correremmo il rischio di una catastrofe».

Basteranno gli appelli? I banchieri a Davos temono mosse populiste dei politici che riducano profitti ed efficienza del sistema finanziario e passano al contrattacco offrendo un fondo di emergenza autotassato in cambio di meno regole. Secondo quanto riporta il «Financial Times», i big bancari starebbero pensando a un fondo, finanziato quasi esclusivamente dalle banche stesse, che servirebbe come un'assicurazione per evitare le ricadute di eventuali fallimenti di istituti. «Servirebbe – ha detto Josef Ackermann ceo di Deutsche Bank – per aiutare a risolvere problemi di grandi bancarotte». Anche il presidente della Barclays, Bob Diamond ha spiegato al giornale che «il G20 avrebbe bisogno di questo schema assicurativo». Un fuga in avanti o un proposta reale? Difficile dirlo visto che i banchieri degli istituti di medie dimensioni non sono affatto interessati (e forse non sono stati nemmeno coinvolti) a partecipare a un fondo per salvare i grandi player del settore. Tempi duri, ma non è forse vero che quando il gioco si fa duro, i duri entrano in campo?

 

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