È una piccola rivoluzione. Inevitabile, dopo la crisi e il diluvio di liquidità: la Federal reserve potrebbe cambiare il suo principale strumento di politica monetaria. I Fed funds potrebbero andare in soffitta, o almeno passare in secondo piano, e lasciare il posto ai tassi sulle "riserve in eccesso", quelli che le aziende di credito depositano volontariamente alla banca centrale.

La Fed ha infatti un problema. Quando dovrà alzare i tassi - un'eventualità lontana, ma prevedibile - e quindi ritirare parte del diluvio di liquidità messa in circolazione per contrastare la crisi i Fed funds saranno un'arma spuntata. Già nei momenti di grande turbolenza hanno mostrato tutti i loro limiti e hanno spinto la banca centrale a inventare nuovi strumenti.
Hanno infatti accesso a quei fondi, e a quei tassi, un numero limitato di aziende di credito: i 21 primary dealers, che fanno in buona sostanza da filtro verso il sistema bancario. Alle operazioni della Bce, per fare un confronto, partecipa invece qualche centinaio di istituti. È evidente che, con la massa di denaro in circolazione, alzare i Fed funds significa incidere su una porzione limitatissima del costo del denaro, con effetti molto indiretti su tutta la struttura dei tassi.

L'alternativa - che, secondo The Wall Street Journal, il presidente Ben Bernanke potrebbe presentare domani al Congresso - è quella di elevare i tassi pagati dalla Fed sulle riserve in eccesso, quelle che superano la soglia delle riserve obbligatorie (pari al 10% dei conti correnti) mantenute dalle aziende di credito presso la banca centrale per facilitare i pagamenti interbancari. Oggi quel tasso è allo 0,25%; portarlo, per esempio, all'1% significherebbe disincentivare tutte quelle operazioni, a cominciare dalla concessione di credito, per le quali si prevede un rendimento inferiore, uguale, o persino leggermente superiore: perché rischiare se la Fed concede quel rendimento senza incertezze? «Se dovessimo alzare i tassi pagati sulle riserve in eccesso aumenteremmo il prezzo del credito. Questo, a sua volta, ridurrebbe la domanda di credito», ha spiegato William Dudley, presidente della Fed di New York; ma già ad aprile 2009, il vicepresidente della Fed di Washington Donald Kohn aveva fatto riferimento all'uso dei tassi sulle riserve.

Il sistema è quello usato dalla Nuova Zelanda, un laboratorio da tempo sotto la lente d'ingrandimento della Fed (si veda Il Sole 24 Ore del 7 giugno 2009). La New Zealand Reserve Bank ha fatto aumentare le dimensioni del suo bilancio - come hanno poi fatto tutte le altre banche centrali - fin dal 2006: lo ha quadruplicato, allo scopo di gestire meglio il mercato interbancario, senza creare iperinflazione come qualcuno temeva.

Come? Ha tenuto relativamente alto il rendimento pagato sulle riserve - che a Wellington sono tutte volontarie - il quale ha funzionato da "pavimento" per tutti gli altri tassi. La liquidità è fluita copiosa, al livello desiderato dal sistema, e i prezzi non sono volati verso l'alto. «Questo è coerente con la teoria economica standard», ha spiegato in una sua ricerca Feroli di JPMorgan che ha aggiunto «gli aumenti di base monetaria attraverso operazioni di mercato aperto influenzano l'inflazione solo se essi incidono sui tassi di interesse». È, questo, un esperimento prezioso per la Fed.

 

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