EUROPA DOPO LA CRISI GRECA
di Guido Tabellini
Se l'euro 2010 sta piangendo...

USA DOPO LA CRISI FINANZIARIA
di Martin Feldstein
... il dollaro 2010 non sta ridendo

L'Unione monetaria europea (Uem) è stata costruita su una premessa: che non ci saremmo mai trovati nella situazione in cui invece ora ci troviamo. L'Uem non è anche un'Unione fiscale. In teoria, ogni stato che aderisce all'euro deve far fronte ai suoi debiti da solo, senza chiedere aiuto agli altri stati membri. In pratica, una volta che il debito circola nella stessa valuta, esso finisce nei bilanci di tutte le banche dell'unione (circa il 60% del debito greco è detenuto fuori dalla Grecia). Ma quando ciò succede, il rimborso del debito cessa di essere solo un problema dello stato debitore, e diventa anche un problema dei paesi creditori. Questa distinzione tra teoria e pratica era ben chiara ai padri fondatori dell'euro. Per questo sono nati il Patto di stabilità, i vincoli sui disavanzi eccessivi, le condizioni di convergenza per entrare nell'Uem: l'evento che un paese dell'area euro non riesca a far fronte ai suoi debiti non doveva accadere. E invece sta accadendo.
Ora sorgono due domande. Primo, come evitare il contagio, e far sì che i problemi della Grecia rimangano isolati? Secondo, avendo verificato che la costituzione economica europea era costruita su premesse irrealizzabili, è necessario cambiarla, e come?
La prima domanda è la più semplice. Per evitare il contagio, occorre che la Grecia non sia costretta a ristrutturare il suo debito. Altrimenti, le perdite sul debito greco rimetterebbero in discussione la solidità di alcune banche europee e, come già con il fallimento di Lehman Brothers, i mercati finanziari precipiterebbero di nuovo nel panico. Per scongiurare questo scenario disastroso, devono accadere due cose. Innanzitutto, il governo greco deve attuare un credibile e rigoroso piano di rientro. Ma il debito in scadenza è troppo ingente perché ciò da solo possa bastare. La storia delle crisi finanziarie passate e recenti insegna che, una volta persa la fiducia, questa può essere riacquistata solo con interventi esterni che eliminino ogni incertezza. Occorre anche che la Grecia riceva concreti sostegni finanziari dagli altri paesi europei o dal Fondo monetario internazionale.
Come nella recente crisi del sistema bancario internazionale, la crisi greca è alimentata da due fattori: un peggioramento delle variabili "fondamentali", nel caso specifico il disavanzo fiscale, che crea un oggettivo rischio di insostenibilità; e una crisi di liquidità e di fiducia. Perché la crisi rientri, occorre affrontare entrambi i problemi. Ma la crisi di liquidità può essere superata solo con aiuti esterni. Se questi si accompagnano al risanamento fiscale, la crisi rientra senza rischio per i contribuenti dei paesi che sono intervenuti.
È stato scritto (per esempio da Otmar Issing) che aiutare la Grecia sarebbe controproducente perché, violando nella sostanza le regole europee, provocherebbe il diffondersi del contagio. Ma la situazione greca è davvero unica. Gli altri paesi mediterranei (Portogallo, Spagna e Italia) non hanno una posizione fiscale così insostenibile, e ciò è riconosciuto anche dai mercati finanziari che discriminano tra Atene e tutti gli altri. Al contrario, la solidarietà tra paesi europei, se accompagnata da un credibile piano di rientro, farebbe rientrare la speculazione.
La seconda domanda, se e come ripensare alla costituzione economica europea, è più difficile. Tuttavia la crisi greca ha evidenziato almeno tre problemi.
Innanzitutto, le istituzioni europee, e in particolare la Commissione, hanno ripetutamente sbagliato. L'errore più grave è stato ammettere la Grecia nell'euro senza che fosse pronta. Poi si è continuato a sbagliare non accorgendosi per tempo della reale situazione delle finanze pubbliche greche; l'errore è proseguito anche nelle ultime settimane, con comunicati ambigui e rilanci sull'entità dello sforzo di aggiustamento chiesto alla Grecia.
Il fatto che Atene abbia truccato i conti non è una scusa, ma evidenzia un secondo problema. Per imporre l'equilibrio di bilancio, non bastano vincoli esterni come il Patto di stabilità. Occorre anche intervenire con modifiche istituzionali all'interno dei paesi. Come si è fatto con le banche centrali, anche alcuni aspetti della politica fiscale devono essere assegnati ad agenzie tecniche indipendenti dagli organi politici. Sicuramente ciò dovrebbe valere quantomeno per gli istituti di statistica, e per gli organi che valutano l'impatto sui conti pubblici dei provvedimenti di spesa e di tassazione, come la Ragioneria generale dello stato in Italia. Ma probabilmente bisognerebbe spingersi oltre, e affidare ad organi nazionali indipendenti anche il compito di sorvegliare l'andamento dei conti pubblici e formulare obiettivi di bilancio.
Infine, è possibile che tutti questi accorgimenti non bastino. Dobbiamo comunque mettere nel conto la possibilità di crisi di fiducia sul debito di un paese dell'euro. E quando ciò accade, è troppo tardi per dire che il paese deve arrangiarsi. Come è stato suggerito sull'Economist da Daniel Gros e Thomas Mayer, e sul Sole 24 Ore da Barry Eichengren (17 febbraio), occorrerà predisporre dei meccanismi tecnici per gestire le emergenze e fornire liquidità ai paesi in difficoltà, in cambio di un controllo assai più stretto sulla politica economica del paese che riceve aiuti. Ciò può essere fatto in modi diversi, ma i principali nodi da risolvere sono sostanzialmente due: dove trovare le risorse finanziarie per trasferire liquidità al paese che ne ha bisogno, e come imporre al paese debitore le misure necessarie. Lasciare all'improvvisazione politica dell'ultimo momento la risposta a questi due interrogativi, come di fatto sta accadendo, aumenta di molto il rischio di errori.



Le autorità cinesi e gli investitori privati di tutto il mondo si stanno preoccupando fortemente e si chiedono se i loro investimenti in dollari sono al sicuro. Poiché il governo di Pechino possiede buona parte della sua valuta estera (2mila miliardi di dollari in tutto) proprio nel dollaro, ha sicuramente di che riflettere sul valore futuro del biglietto verde. Gli investitori con beni di minore entità in dollari, che potrebbero cambiarli in altre valute con maggiore facilità dei cinesi, hanno anch'essi ottimi motivi per chiedersi se non diversificare in asset non in dollari o addirittura lasciar perdere i dollari una volta per tutte.
I timori sul futuro del dollaro sono dovuti a svariate preoccupazioni, collegate in ogni caso tra loro. Il valore del dollaro, per esempio, continuerà il suo trend al ribasso sul lungo periodo rispetto ad altre valute? L'enorme crescita dell'indebitamento del governo degli Stati Uniti previsto per il prossimo decennio e oltre porterà all'inflazione o addirittura a una situazione di default? La crescita esplosiva delle riserve in eccesso delle banche commerciali provocherà una rapida inflazione quando l'economia si riprenderà?
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Anche se le preoccupazioni chiaramente non mancano, in definitiva la conclusione è che questi timori sono esagerati. Cerchiamo di analizzare il più probabile degli sviluppi negativi: un tasso di cambio in calo per il dollaro rispetto alle altre valute. Anche dopo il recente recupero in controtendenza del dollaro rispetto all'euro, il valore del dollaro è oggi inferiore del 15% rispetto a dieci anni fa nei confronti delle valute più importanti e del 30% ai livelli di 25 anni fa.
Malgrado qualche occasionale attacco di nervosismo nei mercati finanziari globali produca una risalita del dollaro, io prevedo che continuerà a calare rispetto all'euro, allo yen giapponese e perfino allo yuan cinese. Il calo nel tasso di cambio del dollaro è necessario per ridurre l'enorme deficit commerciale che gli Stati Uniti hanno nei confronti del resto del mondo.
Si consideri cosa potrebbe significare per i cinesi un ulteriore calo del dollaro sullo yuan: se i cinesi oggi possiedono nel loro portafoglio ufficiale mille miliardi di dollari, un aumento del 10% dello yuan sul dollaro ridurrebbe il valore in yuan di quel patrimonio del 10 per cento. Si tratterebbe di un'enorme perdita contabile, ma tutto sommato non influirebbe sostanzialmente sul valore dei prodotti americani o degli investimenti in proprietà varie negli Stati Uniti che i cinesi potrebbero sempre comprare con i loro miliardi di dollari.
Chiaramente, però, i cinesi (e con loro i sauditi o gli indiani o chiunque altro sia fuori dalla zona euro) hanno di che preoccuparsi per il calo relativo del valore del dollaro contro l'euro. Dopo tutto, infatti, quando il calo dovesse ricominciare, i dollari da loro posseduti perderebbero in potere d'acquisto sui mercati europei. Se è difficile comprendere quanto il biglietto verde possa ancora calare, non ci dovremmo stupire assistendo a una caduta del 20% nel corso dei prossimi anni dagli attuali livelli.
Il grosso rischio per gli investitori, però, è la possibilità che l'inflazione teoricamente azzeri il valore di una valuta. Ciò è già accaduto in parecchi paesi negli anni Settanta e Ottanta. In Messico, per esempio, nel 1990 occorrevano 150 pesos per comperare ciò che nel 1980 si poteva comperare con un solo peso.
Ciò non accadrà negli Stati Uniti. I grandi deficit di bilancio hanno portato a una forte inflazione nei Paesi costretti a stampare banconote per finanziare quei disavanzi perché non potevano vendere obbligazioni governative a lungo termine. Questo non è un rischio per gli Stati Uniti. Il tasso di inflazione di fatto è sceso negli Usa nei primi anni Ottanta, proprio quando hanno sperimentato per l'ultima volta importanti deficit fiscali.
Il presidente della Fed Ben Bernanke e i suoi colleghi sono determinati a tenere bassa l'inflazione mentre l'economia si riprende. La Fed ha spiegato che venderà una buona parte dei molti titoli ipotecari che figurano nel suo bilancio, assorbendo in tal modo liquidità.
Guardando al futuro, gli investitori negli Stati Uniti potranno proteggersi dall'inflazione comperando Treasury Inflation-Protected Securities (TIPS), che indicano l'interesse e i principali pagamenti per scongiurare un aumento dei prezzi. L'attuale piccola differenza tra il tasso di interesse reale su quelle obbligazioni (2,1% per quelle trentennali) e il tasso di interesse nominale sui tradizionali bond trentennali del Tesoro (oggi al 4,6%) indica che il mercato prevede per i prossimi trent'anni un'inflazione pari appena al 2,5 per cento.
La buona notizia, pertanto, è che gli investimenti in dollari sono sicuri. Sicuri, però, non significa che quegli investimenti daranno ingenti utili garantiti. Se è probabile che nei prossimi anni il dollaro continuerà a perdere terreno rispetto all'euro, gli investimenti in bond in euro emessi dal governo francese o da quello tedesco potrebbero assicurare utili garantiti. Anche se il dollaro è assolutamente sicuro, gli investitori sappiano che sarebbe consigliabile diversificare i loro portafogli.

 

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