I mercati non sono ancora convinti della tenuta dell'area euro però ieri si sono un po' calmati. Una pausa, forse anche in attesa di vedere che cosa si deciderà al vertice europeo di giovedì a Bruxelles. Formalmente i 27 capi di stato e di governo dell'Unione non parleranno dei sussulti e delle grida degli ultimi giorni, tantomeno di un eventuale prestito di emergenza alla Grecia e a chiunque, membro del club della moneta unica, ne avesse prima o poi bisogno. Portogallo e Spagna ormai appaiono nell'occhio dello stesso ciclone. Di fatto tutti, da qualche settimana, hanno capito che la riunione sarà il momento per mettere a punto una exit strategy credibile dalla crisi che ha investito l'euro.

Strategia che non può che avere il suo perno in una dimostrazione concreta di solidarietà ai paesi in acque difficili, a riprova della volontà politica generale di difendere coesione e stabilità di una moneta giovane, alla sua prima vera prova del fuoco.
La Grecia ha accettato di attuare un piano draconiano di rientro dal deficit, tagliandolo dal 12,7 al 2,8% in tre anni, e di farsi commissariare da Bruxelles e dall'Eurogruppo. Ha incassato la logica di sacrifici pesantissimi perchè non aveva alternativa se voleva contare sull'aiuto finanziario dei partner. Portogallo e Spagna a loro volta hanno varato o stanno varando altrettante cure da cavallo per rientrare da disavanzi pubblici in viaggio sopra l'8 e il 10%, per riformare il welfare state, pensioni in testa, per lanciare riforme strutturali in grado di fermare la forte emorragia di competitività che travagli tutti e tre i paesi.

«È incredibile che le agenzie di rating critichino i governi per aver speso soldi che hanno permesso di salvare il sistema finanziario» ha detto fuori dai denti il premier portoghese Josè Socrates, allarmato dall'assedio dei mercati di questi giorni. Nessuno nega, naturalmente, le difficoltà politiche e socio-economiche, cui tutti i governi in carica in Europa e fuori devono far fronte per ritornare gradualmente ai perduti equilibri. Da qui a prendere d'assalto l'eurozona, come se fosse ai suoi ultimi respiri, però ce ne corre.

Non a caso Jean-Claude Trichet, il presidente della Bce, si è permesso per una volta di ricorrere all'ironia, chiedendosi se i mercati non si siano accorti che per l'area euro l'Fmi prevede un deficit medio del 6% quest'anno contro più del 10% per Stati Uniti e Giappone. Non a caso Michel Barnier, il neo-commissario europeo al Mercato interno, annuncia un progetto di direttiva Ue sui derivati, Cds compresi, «visto che l'80% di essi sfugge ad ogni controllo, pur movimentando nel mondo qualcosa come 600.000 trilioni di dollari».


È questo il clima che farà da cornice al vertice di giovedì. Dove si attende una Germania un po' più morbida e in sintonia con la Francia di Nicolas Sarkozy tanto sulla governance economica di Eurolandia quanto sulla preparazione di un piano di sostegno finanziario a Grecia & Co. da far scattare qualora le circostanze lo rendessero necessario. «Moneta comune significa responsabilità comuni» aveva avvertito Angela Merkel all'ultimo vertice Ue di dicembre. Da allora la Grecia di Papandreou ha fatto la sua parte. Gli altri due governi socialisti, in analoghe difficoltà, si apprestano a fare altrettanto. È dunque il tempo di prestiti e aiuti europei. Per chiarire una volta per tutte ai mercati che con l'euro l'Europa fa sul serio.

 

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