Parla Dante Roscini, ex banchiere d'affari di Goldman Sachs, Merrill Lynch e Morgan Stanley, oggi docente all'Harvard Business School. I mercati stanno riconsiderando il rischio di alcuni paesi dell'euro

"E' sempre molto difficile fare previsioni sulle valute ma io non credo che il ridimensionamento dell'euro abbia ancora molta strada da fare". Dante Roscini, oggi è docente al corso di MBA della Harvard Business School a Boston, ma negli ultimi vent'anni ha ricoperto posizioni di vertice nelle principali banche d'affari, come responsabile per i mercati dei capitali di Goldman Sachs, Merrill Lynch e Morgan Stanley. Il 17 maggio parteciperà al Global Business Summit organizzato dal Sole 24 Ore e dall'Harvard Business Review a Milano, per parlare delle strategie di rilancio del sistema Italia, ma oggi il focus è sulla nuova tempesta che ha investito i mercati finanziari, cominciando dall'euro ma colpendo anche le borse.

"Quello che sta avvenendo oggi – spiega Roscini che insegna al dipartimento Business, government e international economy del master – è un repricing del rischio. Rispetto alla metà degli anni '90, cioè prima dell'avvento dell'euro, gli spread tra i titoli di stato tedeschi e quelli dei paesi oggi definiti ‘periferici' dell'area euro, si erano ridotti fino quasi ad azzerarsi negli anni scorsi. Erano differenziali che tenevano davvero conto delle divergenze economiche tra i paesi di eurolandia? A mio avviso no. I mercati non avevano prezzato queste differenze che, tra l'altro, negli ultimi anni si sono ampliate anziché ridursi. Ora ci stanno ripensando, anche alla luce del fatto che le politiche fiscali sono rimaste nazionali".

Si parla con insistenza della debolezza dell'euro. In realtà i rapporti di cambio restano ben al di sopra dei valori espressi dai mercati nei primi anni di vita della moneta unica. I consumatori europei appaiono spaventati, ma a chi giova un euro forte?
Se consideriamo il rapporto euro/dollaro in termini di parità di potere d'acquisto, i valori espressi ora dal mercato non sono molto distanti dal range in cui dovrebbero essere. Anche se è impossibile prevedere l'andamento della valuta giova ricordare che circa il 65% del commercio estero dei paesi della zona euro è intraeuropeo perciò non esposto ai rischi di cambio. La moneta forte è utile per esempio alle imprese che vogliono fare acquisizioni all'estero e negli anni scorsi le opportunità non sono mancate.

Lei si definisce un "europeista convinto". Il processo di costruzione europea si trova di fronte ad un bivio: accelerazione o implosione, ‘più Europa' o ‘meno Europa', come ha scritto Moises Naim sul Sole 24 Ore. Lei che ne pensa?
Nel mondo post-crisi i mercati sono 'psicologicamente fragili' e dunque hanno reazioni potenzialmente più volatili rispetto al passato. L'euro, poi, deve essere considerato un come un bambino che suo malgrado si trova in mezzo alla tempesta. Dieci anni per una valuta sono niente. Una moneta che non può contare su politiche economiche coordinate è quasi ancora un esperimento. La fase che sta attraversando l'eurozona è una crisi di crescita ma può diventare un'opportunità per ripensare alcuni elementi fondamenti della moneta unica, soprattutto adottando un maggiore coordinamento delle politiche fiscali.

Cosa è mancato all'eurozona nella fase più acuta della crisi?
Resto assolutamente convinto che senza l'euro oggi ci troveremmo in una situazione molto molto peggiore. Sotto il profilo monetario la gestione della crisi da parte della Bce è stata eccellente, leggermente in ritardo all'inizio nel ridurre i tassi d'interesse rispetto alla Fed, ma poi senza esitazioni. Ciò in cui l'Europa ha fatto più fatica è stata la parte di sostegno e di stimolo all'economia reale, con politiche che hanno fatto fatica a partire e poco coordinate tra loro. Torniamo al punto di prima: l'euro è incompleto perché ad una politica monetaria comune corrispondono politiche economiche e fiscali nazionali. Non solo: mentre le decisioni sulla moneta hanno efficacia immediata, le decisioni economiche e fiscali producono i loro effetti in tempi più lunghi e dunque il coordinamento è importante anche da questo punto di vista.

Ma è solo un problema politico o c'è anche un sottofondo economico che impedisce all'Europa di diventare più competitiva?
È innegabile che ci sia un problema di crescita. Lo dimostrano i dati. Nell'uscita dalla crisi l'Europa sta arrancando. L'agenda Eu2020 punta su ricerca e innovazione per ridare slancio alla crescita, ma sono politiche che richiedono tempi lunghi e decisioni politiche condivise dunque maggiore integrazione tra gli stati membri.

Quali sono gli ostacoli?
Uno dei problemi più gravi è il ciclo elettorale: c'è una continua sequenza di scadenze locali, nazionali o europee. Prevale l'esigenza della ricerca del consenso che si gioca sempre di più, anche nel voto per l'Europarlamento, su temi di interesse locale. Il voto in Nord Reno Vestfalia che ha condizionato la gestione della crisi greca è solo l'ultimo esempio. È un ostacolo enorme per le politiche comunitarie. Ancora una volta, secondo me, la risposta è in un'integrazione più forte, in questo caso coordinando le tempistiche elettorali.

Dopo la crisi greca il timore è il rischio ‘contagio' e i mercati hanno reagito malissimo. Come si può evitare?
È indispensabile attuare politiche fiscali rigorose e sostenibili, comunque orientate alla crescita che è l'unica medicina efficace per curare il debito. Ma non è facile perché gli effetti di questi interventi non sono immediati, c'è una latenza più lunga rispetto alle decisioni monetarie.

E per l'Italia?
Bisogna sbloccare la crescita dell'economia.

Come? Ci dica le tre cose più importanti da fare.
Primo: rendere il sistema paese pro-business, per esempio riducendo drasticamente i tempi della giustizia, rendendo più snella la pubblica amministrazione, velocizzando le procedure per aprire o chiudere un'azienda.
Secondo: liberalizzare i servizi. Terzo, ma fondamentale: invertire la rotta su istruzione e ricerca. Nella prima si spende molto con scarsi risultati; per la seconda bisogna puntare su un rapporto nuovo tra università e imprese, mettendo in competizione tra loro gli atenei.

Lei oggi insegna in uno dei master più prestigiosi del mondo, ma prima ha lavorato nelle principali banche d'affari alle quali viene imputata una grossa responsabilità nell'analsi della cause della crisi del 2008-2009. Qual è la sua opinione?
Credo che la responsabilità delle banche d'affari sia stata molto forte. C'è bisogno di regole più stringenti, ma non bisogna dimenticare che l'innovazione, anche tecnologica, corre più veloce delle regole e dunque la rincorsa è continua.

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