Colpo grosso al tesoro della mafia di Matteo Messina Denaro. La procura di Palermo, con la Dia e la guardia di finanza, ha operato quello che dagli inquirenti viene descritto come il più grande sequestro degli ultimi 10 anni. Si tratta dei beni riconducibili, secondo le indagini, a Rosario Cascio, imprenditore già condannato in via definitiva per mafia. Si tratta di una decina di società, quote capitali e una cinquantina di beni immobili fra terreni e fabbricati. Ci sono società per la produzione e vendita di calcestruzzo, inerti e conglomerati; ditte di costruzioni, ma anche di coltivazione viti-olivi-frutticole; autotrasporti, produzione ed esportazione prodotti agricoli e vini, gestione di impianti di distribuzione di carburanti e una concessionaria di auto. Il valore totale si aggira sui 550 milioni di euro.

Rosario Cascio, spiegano gli inquirenti, negli ultimi 30 anni ha fatto parte del gotha imprenditoriale legato a Cosa nostra. Insieme ad Angelo Siino, oggi collaboratore di giustizia, ha gestito il sitema del "tavolino": il metodo di aggiudicazione pilotata degli appalti che vedere seduti allo stesso tavolo la mafia, la politica e l'imprenditoria. Il sistema prevedeva una rotazione degli aggiudicatari che ha fatto lievitare, per tutti gli anni '80 e parte dei '90, del 20 per cento i costi per la spesa pubblica in Sicilia rispetto al resto d'Italia. Tutti gli appalti venivano, infatti, aggiudicati col minimo ribasso possibile.
L'ultima ordinanza di custodia cautelare notificata a Cascio è del 2008. Gli investigatori hanno scoperto che avrebbe riproposto il metodo del tavolino nelle province di Trapani e Agrigento. Aveva creato un consorzio di imprese al quale era obbligatorio aderire se si voleva lavorare alla opere pubbliche nelle due province siciliane. La tangente mafiosa era fissata al 3 per cento del valore delle opere.

Ma, nonostante fosse in carcere, il potere di Cascio non diminuiva. "L'arresto non influisce negli equilibri di forza – spiega Roberto Scarpinato, magistrato della Dda di Palermo - in un territorio dove l'economia è una macchina di costruzione del consenso, assume centinaia di lavoratori, disciplina il libero commercio. Bisognava arrestare il suo patrimonio".
In passato, infatti, il suo patrimonio è stato già sequestrato salvo poi essergli restituito perché si riteneva che potevano essere sequestrati i beni che erano direttamente coinvolti nella consumazione del reato. E le indagini della Dia hanno dimostrato come "una volta rientrato nella disponibilità di tale imprese a novembre 2001", sia queste che lo stesso Cascio "abbiano innalzato immediatamente e rapidamente le proprie consistenze economiche" mentre, fra il 1993 e il 2000, quando le aziende erano sotto sequestro "subirono un brusco rallentamento nella loro crescita, sino ad allora cospicua, con una netta diminuzione del volume d'affari, degli utili e della patrimonializzazione". Contemporaneamente anche i redditi di Cascio subirono un sensibile calo.

Gli inquirenti ritengono che dietro Cascio ci sia l'imprendibile Matteo Messina Denaro, ad oggi probabilmente il capo di tutta Cosa nostra. A lui, infatti, si rivolge chi vuole comunicare con il latitante di Castelvetrano, nel Trapanese. Un territorio-fortezza. Qui il consenso intorno a Messina Denaro è solido e superiore rispetto a quanto accade a Palermo. Nel capoluogo Cosa nostra si divide, si fraziona. Nel Trapanese il consenso è così forte e radicato che crea un "cuscinetto di protezione" come dice Scarpinato. Non si ricorre infatti all'imposizione del "pizzo" a tappeto ma le fonti di guadagno "derivano dall'imprenditoria mafiosa. Matteo Messina Denaro è a capo della dei colletti bianchi – conclude Scarpinato - un think tank mafioso".

 

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