«È la politica che torna in campo». I fogli della rassegna stampa con i titoli sulla stretta di Barack Obama sulle banche si confondono, sulla scrivania che fu di Quintino Sella, con quelli sull'annunciata riforma fiscale italiana. Giulio Tremonti li legge con attenzione, poi alza lo sguardo: «Da dove vuole cominciare, dal presidente Obama o dal fisco italiano»?

Da Obama. Oggi il Financial Times promuove il suo piano per tassare gli istituti responsabili della crisi finanziaria. Lei che giudizio ne dà?
Mi ricorda un po' Robin Hood. E io, come si sa almeno dai tempi di Parmalat, sto dalla parte di Robin Hood.
(Tremonti ripone i fogli sotto il barattolo dei pelati Cirio che sulla scrivania fa da memento agli interlocutori sui rischi della finanza disinvolta).

Quel barattolo è ancora lì?
Cosa vuole, è un souvenir. Uno si affeziona anche alle piccole cose.

Il caso Parmalat è un simbolo, uno dei primi, della crisi finanziaria. Già allora lei non fu tenero con le banche e qualche anno dopo varò la Robin tax. Perciò oggi si riconosce nell'Obama che richiama il sistema bancario alle sue responsabilità?
Nel settembre 2007, anno ultimo del trionfante mercatismo, nel seminario Ambrosetti ho fatto, ed è agli atti, un breve intervento basato su tre parole: «Esperienza, trasparenza, penitenza». L'esperienza era quella Parmalat. Nel 2004 a Washington, alla Sec, dichiarai che quello italiano era un caso drammatico ma alla fine anche folkloristico, il loro era invece un caso sistemico di Parmalat globale. Poi la trasparenza: l'idea di ripristinare la fiducia separando nei bilanci il grano dal loglio, segregando dalla parte buona la parte cattiva, sullo schema del «Chapter 11». Infine la penitenza, parola che parla da sola, che finora non mi sembra ci sia stata. Da allora, queste cose le dico in tutte le sedi pubbliche e private, nazionali e internazionali. Da ultimo nella lezione che ho pronunciato alla Scuola centrale del partito comunista cinese a Pechino.

La crisi è stata gestita anche usando i soldi pubblici per salvare le grandi banche private in base al principio che queste erano sistemiche. È stata una scelta giusta o sbagliata?
Lo dirà la storia, adesso è presto per un giudizio politico. Un'alternativa era certamente quella del «Chapter 11»: salvare la parte di finanza collegata all'economia reale, alle imprese e alle famiglie, e lasciare marcire gli asset marci. Francamente ho pensato e scritto che questa ipotesi dovesse essere oggetto di discussione. Ma credo anche che non sia giusto, generoso o corretto criticare quello che, sotto la pressione degli eventi, è stato fatto nel paese epicentro della crisi. Le banche americane erano davvero sistemiche. Lo stesso Welfare americano si fonda su Wall Street e, quindi, c'era davvero il rischio che con le banche saltasse tutto il sistema.

Oggi Obama chiede il conto.
La politica presidenziale mi pare ispirata dalla ricerca di un equilibrio tra il realismo finanziario e la pressione crescente dell'opinione pubblica. L'idea che chi è stato salvato con il denaro pubblico restituisca il denaro che ha ricevuto con il sovrappiù dei benefici di sistema mi pare un'idea che s'inserisce perfettamente in questa logica.

Da almeno un anno in tutti i simposi internazionali non si fa che parlare della nuova architettura finanziaria del mondo. Dove sono i risultati?
Si sono confrontate due idee: l'idea politica di una nuova Bretton Woods e dei legal standard contro l'idea tecnica dei Forum e dei Board. Finora la scena è stata occupata da questi ultimi strumenti, dai regolati che si presentavano come regolatori e da governi non ancora capaci di fare politica. Sono stati architettati prodotti di dubbia utilità, medicine scadute prima ancora di essere sperimentate. Quella che in Italia è stata presentata come una polemica personale, era ed è in realtà la contrapposizione tra due visioni del mondo, tra due idee molto diverse sul "che fare". Quando un importante uomo politico (il segretario al Tesoro americano Timothy Geithner, ndr) dice che non è stato fatto un "Trattato" perché questo avrebbe dovuto passare per le lungaggini dei «parlamenti» c'è l'espressione di una visione diversa dalla mia.

Con l'iniziativa del presidente americano si entra in una nuova fase?
È una forma di ritorno della politica e di prevalenza della politica sulla tecnica, il suo piano non credo sia stato concepito da tecnici o banchieri centrali.

C'e da aspettarsi in Italia un intervento analogo sulle banche?
La realtà delle banche italiane è stata ed è per fortuna diversa. E tuttavia il governo ha fatto la sua parte. Prima con la Robin Hood tax e con il taglio alle commissioni. Nel pieno della crisi, poi, il presidente Berlusconi ha rassicurato il paese: «Nessuno rischia i suoi risparmi perché nessuna banca sarà fatta fallire». Sulla base della fiducia, è stata così garantita la tenuta basica del sistema. L'"illuminato" autore della scritta estatica secondo cui il fallimento di una banca è «un bel giorno per il capitalismo» ha ignorato che la banca non svolge una comune attività capitalistica, ma un'attività che si esercita su beni pubblici fondamentali e per questo tutelati dalla Costituzione, come il risparmio e il credito. Simmetricamente abbiamo fatto quanto potevamo per tenere aperto il canale del credito alle imprese. Abbiamo messo in campo la Cassa Depositi e Prestiti e la Sace. Abbiamo proposto la "moratoria" sui debiti, uno strumento che si sta rivelando di grande efficacia. Stiamo costruendo un grande fondo d'investimento per le Pmi, uno strumento nel quale le banche italiane si uniscono per la prima volta insieme in una logica di sistema.

Le imprese continuano a registrare comunque una stretta creditizia.
Resta ancora aperta la grande questione del "territorio". Il Pil italiano è fatto al 95% da imprese con meno di 15 addetti distribuite sul territorio, ma le più grandi istituzioni bancarie negli ultimi anni sono state concentrate in una logica centrale e verticale. Questa tra la struttura "minima" dell'economia e l'architettura della "grande banca" è una asimmetria che la crisi ha dimostrato non positiva. Non è competenza dei governi disegnare l'architettura dell'industria bancaria. Abbiamo solo soft power. Va comunque registrata oggi come molto positiva la tendenza delle grandi banche a riformarsi adottando modelli "territoriali" nuovi, anzi vecchi, ritornando alle agenzie, ai direttori di agenzia, recuperando anche verso il basso l'arte antica di fare banca.

Come ha vissuto la vicenda dei Tremonti bond, con la rinuncia ad usufruirne da parte delle maggiori banche?
Per prima cosa, se proprio vuole parlarne, non li chiami bond ma equity, perché sono strumenti di patrimonializzazione e non di debito. Il disegno, poi, fino ai dettagli, non è italiano ma europeo, anche sul costo. È stato riconosciuto che lo strumento ha funzionato a 360 gradi per il solo fatto di essere disponibile. Quindi è stato utile. Infine molte banche lo hanno utilizzato. Solo due hanno detto di no e in questo modo hanno fatto una loro libera scelta. L'unico rilievo è che li hanno rifiutati nello stesso giorno e alla stessa ora...

Le banche sono state le protagoniste della crisi. Ma il 2009 è stato molto difficile per tutti, a cominciare dalle imprese e dalle famiglie. Il 2010 è atteso come l'anno dell'inizio di una lenta e faticosa uscita dalla crisi. E tra due mesi le elezioni regionali segneranno il passaggio alla seconda parte della legislatura. Cosa dobbiamo attenderci?
Mi sta chiedendo una mappa per orientarci nel nostro futuro? Una sorta di cartografia politica?

Mettiamola così.
Allora proviamo a farla insieme. Dall'8 maggio 2008, giorno del giuramento, è quasi un biennio di governo. Personalmente e politicamente è stato per me, per noi, per tutti ben più di un biennio. Sono stati due anni che hanno marcato profondamente il corso del tempo che viviamo. Le posso assicurare che le conference call tenute all'alba o in piena notte – per far collimare i fusi orari – sono un'esperienza che non dimentichi facilmente. Ma localizziamoci sulla mappa politica italiana oggi. A marzo come lei ricordava, c'è una vasta tornata elettorale. È un test politico importante, una sorta di elezioni di medio termine, più o meno un referendum sul governo. Ma poi basta: si apre un periodo di quasi tre anni di tregua elettorale. Un tempo politicamente lunghissimo, il tempo delle riforme.

È il tempo lungo su cui lei ha impostato quella che ha definito la grande riforma tributaria.
Per me, e non solo per me, quella fiscale è la «riforma delle riforme». Nella storia e in tutto il mondo il rapporto fiscale è infatti il rapporto politicamente ed economicamente fondamentale. Per decenni e decenni in Italia questo rapporto è stato distorto dalla "democrazia del deficit". Dall'idea che la spesa pubblica non dovesse e potesse essere finanziata nel tempo presente con le tasse, ma con un crescente "future" fiscale. Una cambiale girata alle generazioni future. Noi siamo oggi la generazione futura. A partire dagli anni 70 il debito pubblico è diventato la dominante non solo economica ma politica del nostro paese. Prima come opportunità di vita facile e oggi come difficoltà di tenuta. Lei sta scrivendo sulla scrivania di Quintino Sella e Sella diceva che il bilancio pubblico contiene le virtù e i vizi di un paese!

Lei evidenzia il debito come dominante della nostra storia recente, ma le mappe devono servire per il futuro.
Certo. Nel 2010 la Repubblica italiana dovrà operare sul mercato finanziario emissioni di titoli del debito pubblico per circa 485 miliardi. Tolti i giorni festivi, fanno 2 bilioni al giorno, in vecchie lire quasi 4.000 miliardi. Su questa scala di valori, con questo ritmo, ad ogni asta devi trovare operatori che hanno fiducia nella Repubblica italiana. Non solo. Sul mercato si stanno presentando altri Stati con le loro crescenti emissioni pubbliche. E in questo caso mal comune non è mezzo gaudio, perché aumentano la concorrenza, i tassi, i rischi. Per tutto questo è sempre saggio ricordare, nel palazzo della politica e all'opinione pubblica, che abbiamo il terzo debito pubblico del mondo senza avere la terza economia del mondo.

Sull'Economist di venerdì la Spagna pubblica i suoi titoli di stato. È un segno della concorrenza. C'è un rischio Italia sui mercati?
Come Italia abbiamo tenuto, teniamo e terremo per effetto della combinazione di alcuni fattori fondamentali. Abbiamo esperienza. Il nostro bilancio pubblico, a differenza di altri paesi, è strutturato da decenni contenendo il debito e gli interessi sul debito. Per gli altri il debito è un'esperienza nuova e non facile da gestire, dato il suo costo, nell'opinione pubblica e nei parlamenti. E poi consideri il fatto che a fronte del debito pubblico in Italia c'è un enorme stock di risparmio privato: queste due grandezze vanno sommate insieme e la somma per l'Italia, a differenza che in altri paesi, è positiva.

Occupazione, consumi e produzione, però, preoccupano.
Sennò non si parlerebbe di crisi. Ma su tutto questo i numeri, pur critici, non manifestano i forti squilibri che invece caratterizzano altri paesi. Attesa per il peggio, l'Italia è nella media europea, e questo da un lato stupisce un po' in Europa e, dall'altro lato, fa impazzire gli anti-italiani in Italia. Seriamente penso che possiamo guardare al futuro con buona coscienza, nel mondo può succedere di tutto, ma noi in Italia abbiamo fatto, facciamo, faremo tutto il possibile.

Cerchiamo di mettere chiarezza tra le dichiarazioni molto diverse che sono arrivate in questi giorni: in questo contesto sarà possibile o no ridurre la pressione fiscale?
Il senso della discussione che ho fatto con il presidente del Consiglio, e sul quale pienamente concordiamo, è che abbiamo tre anni per fare una riforma fiscale. Una riforma che può e deve essere fatta, e sarà fatta, non in termini di speculazione elettorale o di avventurismo demenziale, ma in termini di vero riformismo. Perché quella fiscale è una riforma fondamentale tanto per lo Stato quanto per l'economia.

Lei ha detto che il sistema italiano non è né giusto né efficiente.
Il sistema fiscale italiano è stato disegnato negli anni 60, messo in legge negli anni 70 e da allora continuamente, infinitamente, rattoppato. Ma fondamentalmente riflette un mondo che non c'è più. È cambiato il modello produttivo con il passaggio dalla grande fabbrica alle medie e piccole imprese. Sono nati i distretti, siamo arrivati a 8 milioni di partite iva. È nato il modello competitivo: negli anni 60 l'obiettivo era stato il Mec, adesso il Mec è solo un'isola nel mercato globale. È cambiato il modello tecnologico con l'informatica, i robot. È cambiato il modello sociale, prima c'erano più giovani che vecchi, adesso è il contrario, ma abbiamo in più 4 milioni di immigrati. È cambiato il modello istituzionale nel 2001 con il federalismo. Il sistema fiscale è diventato così sempre più vecchio, confuso e irrazionalmente complesso, spostato sul centro senza che il centro abbia più la piena forza nell'uso di tutte le leve. In ogni caso non possiamo entrare nel nuovo secolo con una macchina di 50 anni fa.

Il Sole 24 Ore ha evidenziato che per la sola Irpef esistono almeno 80 forme di detrazioni e deduzioni.
Ho letto. Io la metto così: dentro l'Irpef, o Ire, quella che una volta era la "regina" delle imposte, puoi contare tre forme di prelievo, una basica e due addizionali (comunale e regionale); quattro modalità di tassazione (ordinaria, sostitutiva, separata, abbattuta); sei categorie di reddito oltre alla no-tax area, cinque scaglioni e poi 134 forme di riduzione, tra cui 18 deduzioni, 39 detrazioni, 31 crediti di imposta, 46 esenzioni e agevolazioni. Einstein diceva, a proposito della Income tax, che fare la dichiarazione dei redditi era arduo per le menti umane.

Ora i professionisti ed i Caf usano i computer e i pacchetti di software.
Ma le 153 voci che abbiamo contato sopra per i cittadini restano misteriose ed odiose, e questo fa crescere la sfiducia verso lo Stato. E, ancora di più, il centralismo fiscale impedisce di vedere dove vanno effettivamente i tuoi soldi. In tutta Europa ci sono tasse locali che finanziano direttamente le spese locali, solo in Italia è diverso. In questa situazione non ha più senso procedere con la logica dei rattoppi, serve la grande riforma. Leggo che Enrico Letta propone 34 interventi cacciavite. Spero di convincerlo che il cacciavite va usato per montare una macchina nuova e non stringere le viti di una macchina vecchia per sempre.

Proviamo a tracciare alcune linee guida. Sono ancora valide le indicazioni del libro bianco del 94?
Ricordo bene la lettera di Carlo Maria Cipolla. Mi incitava ad andare avanti su quel progetto. Nel libro bianco erano indicate le direttrici di fondo che con il presidente del Consiglio riteniamo ancora valide: dal complesso al semplice, dal centro alla periferia, dalle persone alle cose. Sull'Irpef non c'erano indicate due sole aliquote, ma si diceva che «si presentano quattro curve tra cui scegliere, una di centro, due borghesi, una proletaria. Sarà il dibattito a individuare la più opportuna». Un modo un po' scherzoso per porre un problema vero. C'era poi l'ipotesi di un sistema ad otto tributi con cui si cercava di entrare nella modernità. La riforma si finanzierà anche al suo interno, spostando il prelievo ed eliminando gli eccessi da complicazione.

Agli incoraggiamenti di Cipolla, nel '94, non corrisposero le reazioni, prevalentemente critiche, del mondo accademico.
La "cittadella" del pensiero consolidato reagì male all'idea di un attentato al primato dell'imposta personale. Ma l'ultimo congresso celebrato dalla Cisl si è espresso all'opposto proprio sul principio del favore per un passaggio "dalle persone alle cose". E l'ho trovato straordinariamente lungimirante. Le tre direttrici di riforma allora erano visionarie, ora c'e un crescente consenso. Vede che il tempo serve e che tutto non si può sincopare nelle polemiche e nelle invettive. Naturalmente c'è da discutere quando per esempio da sinistra si chiede di rivedere l'imposizione sulle persone aumentando quelle sulle rendite. L'idea era già nel Libro del '94, ma ricordo che un conto sono le "rendite", e se vuole la speculazione finanziaria, un conto è il risparmio della gente comune.

Vuol dire che non si farà l'armonizzazione della tassazione sulle rendite finanziarie?
Vuol dire che anche di questo bisogna discutere con serietà, tenendo presenti tutti gli aspetti del problema. Con il presidente Berlusconi abbiamo comunque aperto l'agenda: all'Aquila si terrà il coordinamento dei lavori, si raccoglieranno carte ed idee, si ascolteranno tutte le istituzioni interessate, inviteremo l'Istat e l'Ocse, i tecnici del Parlamento e della Banca d'Italia, il Parlamento e il mondo universitario, l'Ocse e la Commissione europea, soprattutto le forze sociali ed economiche. Se vuoi andare veloce vai da solo, se vuoi andare lontano vai in gruppo. E non è debolezza ma forza. Questo modo di lavorare non è immobilismo o rallentismo ma positiva determinazione nel fare. Chi va piano va sano e va lontano.

Insisto: e l'annunciata riduzione della pressione fiscale?
Nel nostro programma elettorale, nel marzo 2008, a differenza della sinistra che ancora parlava di "miracolo" abbiamo scritto di una «crisi» che «arriva e si aggrava». Avendo accumulato negli anni esperienza politica, volevamo evitare di crearci difficoltà con le nostre stesse mani, fissandoci su promesse elettorali tanto difficili da realizzare quanto inutili. Perché tanto si vinceva lo stesso. Non è affatto escluso che nel tempo a venire si possano aprire all'improvviso, prima del tempo previsto, finestre di opportunità per riduzioni fiscali, ma queste devono essere sottoposte ad un vincolo fondamentale: quello della disciplina di bilancio. In ogni caso è certo, fin da oggi, che gli effetti della ripresa dell'economia, della riduzione della spesa pubblica e del contrasto dell'evasione fiscale saranno, a partire dal federalismo fiscale, destinati alla riduzione delle tasse.

Lei fa riferimento ai tagli della spesa ma, mentre la spesa in conto capitale soffre, quella corrente sembra continuare la sua corsa.
Se il Pil scende tutti i rapporti peggiorano per questa causa. In ogni caso il contenimento della spesa corrente avrà la sua soluzione per effetto del federalismo fiscale. I costi standard ridurranno, nell'efficienza, la spesa pubblica, dal comparto sanitario fino a quello delle pensioni d'invalidità, perché anche queste dovranno entrare negli standard, individuando chi non ne ha diritto.

E la lotta all'evasione fiscale? Non è che rientrati i capitali tirerete i remi in barca?
È un'azione che stiamo sviluppando con il determinato impegno dell'Agenzia delle entrate e della Guardia di finanza. Nel contrasto ai paradisi fiscali, lo scudo non è la fine ma il principio. Ma anche il contrasto all'evasione si svilupperà soprattutto con il federalismo fiscale. In un paese con 8.000 comuni e 8 milioni di partite iva un'azione vincente in questo ambito può essere prodotta solo con la partecipazione dei comuni. E il federalismo farà sì che questi saranno direttamente interessati a rafforzare le proprie entrate.

Dalla maggioranza c'è chi è stato perentorio: o Tremonti taglia tasse e spesa o è fuori...
Un conto è proporre di tagliare le tasse per 20 o 30 miliardi con un taglio ugualmente virtuoso e simmetrico della "spesa per servizi e consumi intermedi delle Regioni". Un conto è uscire dall'astrattismo e proporre di tagliare le tasse con la macelleria sociale del taglio alla sanità. Si tratta appunto di capire qual è e dov'è la maggioranza. In realtà la crisi ha modificato il paradigma politico, i popoli vogliono sicurezza. Nessuno in Europa pianifica rivoluzioni fiscali o macellerie sociali. In Germania, i sondaggi di massa rifiutano lo scambio meno tasse e meno sicurezza sociale. E non è questioni di blocchi corporativi come pensano gli analisti politici, ma proprio questione di megatrends della politica. Non credo che gli italiani la pensino diversamente. E forse dietro il consenso verso il governo Berlusconi, c'è anche la sua strategia di essere sicuro in tempi di insicurezza e ora rivolto al futuro di una riforma senza avventurismo.

Uno studio di Marco Fortis pubblicato dal Sole 24 Ore evidenzia la forza, oltre la crisi, delle imprese italiane che esportano. Sarà questo il motore della ripresa?
L'economia italiana è andata sotto di un punto nel 2008 e di cinque punti nel 2009. Può andare sopra di un punto o qualcosa in più nel 2010.

Che previsione farà il governo nel programma di stabilità Ue?
Puntiamo sull'1%. Ma leggiamo il grafico del Pil dal lato del bilancio pubblico. La caduta del Pil ha prodotto una caduta delle entrate fiscali, mentre la spesa pubblica è rimasta lineare e non poteva essere diverso perché dietro c'erano contratti e diritti acquisiti e perché fare diversamente avrebbe aggravato la crisi, stile Hoover. La squadratura tra entrate ed uscite ha prodotto un deficit addizionale che ci costerà all'anno 8 miliardi di spesa per interessi in più sul debito. Chi parla in assoluto di riduzione delle tasse dovrebbe saperlo.

Una ragione in più per cercare il motore della ripresa.
Per essere più chiari nella visione sul futuro dobbiamo capire cosa è successo. La crisi è venuta da fuori e ci ha colpito su un punto di forza, sul nostro export: sui 90 miliardi di ricchezza persa, 70 miliardi sono la perdita sul nostro super-export. Mentre gli uffici studi ci spiegavano che eravamo in declino, le nostre imprese conquistavano quote del mercato globale. Della globalizzazione siamo stati anche noi artefici come export e vittime come caduta dell'export. Ma quando ripartirà il mondo le nostre imprese sono lì e ci saranno.

Le imprese hanno fatto la loro parte, ma il governo cosa sta facendo e farà per loro?
È bene essere onesti su un punto: i governi, tutti i governi, se fanno bene, possono garantire solo l'esistente: non sono loro a potersi sostituire per esempio all'export mondiale. Tanto meno se sono governi già in deficit per loro conto. Dal lato pubblico, la speranza e il futuro sono solo in Europa. È in Europa che, nel gioco dell'exit strategy, si deve aprire la grande questione del modello di sviluppo. Deve essere ancora quello tedesco dominato dall'export? O deve essere un modello riequilibrato sulla domanda interna aggregata europea?

E dunque in concreto cosa può fare l'Europa per le nostre imprese e i nostri lavoratori?
Giorno dopo giorno sta crescendo il consenso per piani d'investimento a medio e lungo termine, non necessariamente finanziati dai bilanci pubblici, ma capaci di attirare stock di risparmio e liquidità che circolano nel mondo. L'idea italiana di costituire con la Bei il Fondo Marguerite, che riunisce le Casse Depositi e Prestiti europee, ha già fatto nascere un club d'investitori anche asiatici. L'euro è una moneta molto forte, la Ue è economicamente forte, è arrivato il momento di valorizzare tutto questo.

Cipolla diceva che i grandi cicli di sviluppo sono collegati con i cicli dell'energia e di riflesso con i cicli delle macchine. Vede anche lei nella green economy l'opportunità di un nuovo ciclo europeo?
Nel dopoguerra l'automobile è stata il grande driver di sviluppo, dal metallo al vetro al cemento delle autostrade. Adesso serve un driver nuovo. Sarà nell'ambiente e nell'energia. Ma per questo servono enormi investimenti che non possono essere né solo privati né solo nazionali. L'Europa si è basata su due trattati pilastro: il trattato di Roma sul mercato privato ha funzionato, il trattato Euratom sull'energia che avrebbe dovuto unire gli stati sull'energia no. Chi crede davvero all'Europa deve tornare a costruire questo pilastro. Tra la retorica di Lisbona e il sogno Euratom io per esempio non ho dubbi. E un giorno verranno gli euro-bond: un'idea che non è solo finanziaria ma anche politica.

E le riforme per rendere più competitiva l'economia italiana?
Del fisco abbiamo parlato. La riforma della pubblica amministrazione, della scuola, dell'università e delle infrastrutture sono in atto. Più in generale mi faccia trarre un'altra lezione dalla crisi. Ricorda Achille e la tartaruga? Ebbene l'Europa, fino a qualche anno fa, era costellata di economie-Achille che ci sembravano crescere più della nostra. Ci dicevano che questo era frutto delle riforme che loro avevano fatto e noi no. Adesso fa ridere, ma per anni ci hanno raccontato che l'Italia non cresceva, che era una tartaruga, perché non aveva fatto "la liberalizzazione del mercato finanziario"! Achille correva dopato dalla finanza. La tartaruga era invece la manifattura, con la fabbrica e il lavoro, localizzata in un'area che coincide ancora con la vecchia struttura dell'Europa carolingia dal Reno alla Loira al Po. Oggi si vede con chiarezza che la tartaruga era magari più lenta ma certamente più forte di Achille.

Anche quella italiana?
La tartaruga italiana ha dimostrato straordinarie caratteristiche di resistenza. Questo non vuol dire che non vediamo segnali di crisi in settori, distretti, aziende, famiglie e persone. Ma nell'insieme il nostro equilibrio strutturale e, se posso aggiungere, anche una certa saggezza nell'azione di governo, ci hanno fatto tenere anche più di tanti altri. Ora le rotte del mondo si stanno riaprendo e i nostri aeroporti sono pieni d'imprenditori che partono con coraggio per percorrerle. Un altro segnale di fiducia è nel rimpatrio dei capitali.

Un'operazione da cento miliardi. Ma quanti di questi capitali sono effettivamente rientrati? Gli operatori stimano che la quota di rimpatrio solo giuridico è 20-40%.
Il rimpatrio "giuridico" non esiste, è solo un modo per nascondere la sconfitta dei paradisi fiscali. O i soldi possono essere tenuti fuori, ma non nei paradisi fiscali, o rientrano a tutti gli effetti. Aprire un conto in Italia, anche se presso una filiale di banca estera, è rimpatriare ad ogni effetto. È avere la vigilanza bancaria italiana e i controlli fiscali italiani. Da quel momento devi dichiarare al fisco italiano dove va ogni euro e quanto rende. E, comunque, per quanto si sa la maggior parte dei capitali rimpatriati resta in Italia. I soldi nei paradisi fiscali, dopo il G-20 di Londra, sono soldi morti o soldi persi.

Ma l'Europa ha al suo interno paesi come il Lussemburgo o l'Austria.
È una domanda che farò all'Ecofin quando il tema sarà all'ordine del giorno e spero presto. In base ai dati Eurostat sull'euroritenuta i capitali italiani in Austria non superano in tutto i 2 o 3 miliardi, una consistenza che non giustifica il fatto, che i nostri servizi stanno verificando, che le banche austriache ti rispondono in italiano e lo stesso succede da qualche altra parte in Europa. È segno che c'è qualcosa che non va. Alcune banche "europee" hanno provato a cannibalizzare quelle svizzere, mandando alla clientela messaggi del tipo "da loro è finita ma da noi continua meglio di prima proprio grazie allo scudo europeo". Data la tendenza che c'è a minacciare e moltiplicare i ricorsi per violazioni e frodi europee si potrebbe allungare l'elenco con questi casi di frode statale europea. Non è forse improprio: I want my money back.

Lei rivendica i meriti dell'azione di governo, ma troppo spesso, anche nell'attuale maggioranza, i contrasti della politica avvelenano il clima e frenano l'attuazione di politiche efficaci di sviluppo.
Onestamente se ci sono tensioni sono più di là che di qua. E alle tensioni interne che ci fanno gioco fa seguito la debolezza che invece non fa bene al sistema politico nel suo insieme. Un esempio per tutti: in uno schieramento politico dominato dall'idea della forma-partito, uno schieramento che rimprovera ad altri proprio il difetto di non essere un partito, ci si poteva aspettare la sequenza: partito che decide-candidato che accetta. In Lazio è successo l'opposto: il candidato ha deciso-l'erede ultimo della tradizione partito ha accettato.

Ma converrà che le tensioni tra Berlusconi e Fini non danno l'immagine di una maggioranza particolarmente coesa.
La sua domanda mi ricorda la vicenda della pagliuzza e della trave. Piuttosto sarebbe grave se alla crisi economica venuta dall'esterno si sommasse in Italia una crisi politica interna a matrice giudiziaria. Lei ricorderà il brocardo "fiat iustitia et pereat mundus": si distrugge tutto per fare "giustizia". Da millenni, dalla Bibbia in poi, i sistemi giuridici contengono invece in sé il principio dell'equilibrio, nessun sistema si esaurisce mai nell'assolutismo giuridico. Chieda un po' in giro agli italiani se preferiscono la "giustizia" al deserto. Questo non vuol dire abbattere il principio di legalità, ma capire che quello tra poteri può essere solo un equilibrio ordinato nella logica anche empirica del bene comune. Ecco perché sono per le riforme, anche della giustizia.

Il Sole 24 Ore l'ha nominata uomo dell'economia per il 2009. Lei chi avrebbe scelto?
Il lavoratore ignoto, il risparmiatore ignoto.

 

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