È una lunga storia di tensioni, più o meno esplosive, quella di via Padova a Milano, con i primi attriti partiti a metà degli anni Sessanta. Paolo Branca, docente di lingua e letteratura araba, islamista, in quella zona della città è nato e ha vissuto per buona parte della giovinezza. Di via Padova ha visto tante facce, evoluzioni e involuzioni. A partire da una forte presenza di immigrati meridionali, a cavallo degli anni Settanta. «Amici, conoscenti, negozianti, molti venivano dal Sud e qualcuno, milanese, mostrava espressioni di disagio», ricorda. Già allora c'erano stati scontri, con sparatorie in largo Tel Aviv tra immigrati meridionali appartenenti a clan malavitosi. C'erano periodi in cui i contrasti sembravano sparire per poi riaffiorare improvvisamente. Ma ora il pericolo ghetto sembra essere tornato dietro l'angolo. E le esperienze delle altre capitali europee, dice Branca «non sono confortanti». Perché «le famose banlieu parigine o il londonistal (la comunità islamica di Londra) dimostrano esattamente dove non si deve andare». Sbagliato accumulare in un'unica zona troppi immigrati, perché significa creare aree a rischio, «non tanto perché loro siano malvagi, ma perchè spesso vivono in situazioni di precarietà di lavoro, con problemi burocratici legati ai permessi di soggiorno, che sommandosi in un unico territorio aumentano i disagi e i possibili esiti negativi».

Ma Branca richiama a responsabilità più ampie:«Ci sono coloro che speculano su questo. Vorrei sapere in via Padova quanti italiani hanno affittato due stanze, magari in nero, a 15 immigrati che dormono accatastati». Anche questo è un controllo che non andrebbe trascurato.
E se in momenti di disagio e di paura ciò che salta all'occhio sono le criticità l'invito adesso è quello di non trascurare quello che le associazioni hanno fatto: «In via Padova ce ne sono molte. Ci sono persino una moschea e una parrocchia che da anni collaborano, la Casa della cultura islamica e la parrocchia di San Giovanni Crisostomo. La scuola di fronte alla quale sono accaduti i fatti di sabato, poi, è la Casa del Sole, da anni esempio di integrazione con corsi di arabo, cinese, nata come struttura modello nel suo genere». Insomma è importante incentivare le buone pratiche che già esistono.

E la paura? Per molti cittadini non è così scontato metterla da parte. «Un disagio certamente c'è», dice Branca citando la società liquida di Zygmunt Baumann, «una società dove le trasformazioni sono troppo rapide. Tanto veloci da non riuscire ad adattarsi, perchè quando il cambiamento viene digerito, già le cose sono mutate un'altra volta». Da qui il senso della minaccia e di non ritrovarsi senza la terra sotto i piedi. Ma l'unica possibilità, insiste l'islamista, è comprendere che questa convivenza di etnie diverse, entro limiti ragionevoli, può essere anche un fattore di arricchimento. Un risultato che si ottiene «lavorando sul terreno, con le persone, le associazioni, non ci si può limitare a discorsi teorici. Quando si arriva all'utilizzo delle forze dell'ordine significa che sono già state perse battaglie precedenti, oscure all'opinione pubblica».

C'è poi la situazione dei ragazzi latino-americani «più esposti di altri, anche perché le madri lavorano 12 ore al giorno come i padri, a differenza delle donne arabe che sono casalinghe e si occupano dei figli». Ragazzi lasciati a loro stessi che si aggregano nelle bande, con in mano sempre una bottiglia di birra. È per questo che «la creazione di nuovi centri di aggregazione giovanile è auspicabile, ma anche quelli che già ci sono vanno potenziati». Per partire dalle esperienze positive che sul terriorio ci sono e ampliarle, «perché la società si salva con la società, non con interventi esterni».

 

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