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Con i parà nel cuore di Kabul

dall' inviato Cristina Balotelli

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Sabato 19 Settembre 2009

KABUL - Nonostante la grande tristezza negli sguardi di tutti, a Camp Invicta, la base militare italiana a Kabul, le attività proseguono. Il comandante, colonnello Aldo Zizzo, per prima cosa parla con i suoi paracadutisti di quanto è successo. «Ci avrei tenuto a portarvi a casa tutti», dice loro con molta amarezza.

Il lavoro continua
Poi mi incontra nel suo ufficio. «Dobbiamo andare avanti, anche nel rispetto della popolazione locale, per poter consegnare loro delle porzioni di terreno sempre più ampie», dice. «Sicuramente è un momento difficilissimo per noi paracadutisti, ma dobbiamo proseguire con le nostre attività operative». Poi il pensiero va alle famiglie dei militari morti: «A loro chiediamo di essere fieri e forti come lo siamo noi qui». A Camp Invicta sono arrivate molte telefonate di solidarietà da parte di «quasi tutti i comandanti delle forze armate afghane e della polizia, con cui collaboriamo giornalmente», continua il comandante. Quale dovrebbe essere, gli chiedo, l'atteggiamento di chi in Italia detiene il potere? «Dimostrare sempre la loro vicinanza e soprattutto consentirci la disponibilità dei mezzi a più alta tecnologia». Poi parliamo del cambiamento, negli ultimi mesi, delle tecniche impiegate dagli insorti contro le forze Isaf.

«Siamo passati dai combattimenti diretti, dove loro hanno quasi sempre avuto la peggio, al posizionamento di bombe rudimentali e ora anche agli attacchi suicidi», spiega Zizzo. E aggiunge che gli attacchi suicidi potrebbero essere «un segnale di debolezza perché le forze afghane controllano porzioni sempre più ampie di territorio». E perché le altre tecniche si sono rivelate inefficaci. Ma, conclude, «il suicida a loro costa molto di più».

La pattuglia
«Sei parte della nostra pattuglia, da oggi, benvenuta!», mi dice nel pomeriggio il caporal maggiore capo Andrea Longo, 29 anni, che comanda la "mia" squadra. Partiamo con quattro veicoli blindati Lince dopo un briefing sul percorso e sulle minacce che potremmo incontrare. Queste ultime vanno dagli ordigni improvvisati agli attentatori suicidi sulle autobomba. Siamo due squadre su quattro blindati, però ci dividiamo subito e imbocchiamo un itinerario diverso per motivi di sicurezza: un convoglio di quattro mezzi è più vulnerabile. I soldati della mia squadra mi rassicurano: «Tranquilla, vogliamo tutti rientrare alla base sani e salvi». Giubbotto antiproiettile, elmetto, cintura. Accanto a me c'è Graziano Giustizieri, 25 anni, primo caporal maggiore. È il mitragliere di bordo, in gergo "rallista". Concentratissimo su tutto quanto si muove intorno a noi. Davanti siedono Longo e il caporal maggiore scelto Antonino Errante, 31 anni, padre di un bambino di due anni.

Dobbiamo attraversare Kabul da una parte all'altra. Ci muoviamo a velocità costante, quando la strada lo permette. È il modo migliore per evitare un'autobomba. Mi fido di loro, sono bravissimi, ma temo gli ordigni. Ai lati della strada polverosa vedo immense distese terrose, qualche casupola, negozietti di alimentari. La gente ci guarda passare: anziani che trascinano carretti, donne in burka azzurro, uomini impegnati a vendere le loro mercanzie e bambini che giocano (ci sono anche gli aquiloni). Ogni camion che ci passa di fianco, ogni automobile parcheggiata vicino a noi fa paura. «In caso di pericolo attuiamo la bolla di sicurezza», spiega Longo. «Si tratta di creare una distanza di sicurezza tra noi e l'eventuale pericolo», anche impedendo ad altri mezzi di avvicinarsi. Come? «Di fronte a un pericolo imminente, prima di aprire il fuoco usiamo tutti i possibili deterrenti, dalla gestualità a dei razzetti innocui simili ai bengala», racconta Giustizieri. Lo vedo utilizzare questi piccoli razzi luminosi, che loro chiamano "matite minolux" e che servono per segnalare agli afghani che devono spostarsi e lasciarci passare.

Pericolo vicino
Mano a mano che ci avviciniamo al centro di Kabul troviamo più traffico e ingorghi. Sono i punti di maggior pericolo, come quando ci troviamo in una zona che è un enorme mercato all'aperto. Ci sono persone ovunque. La tensione aumenta. A un certo punto facciamo marcia indietro per il troppo traffico. Giustizieri urla ai veicoli e ai passanti di spostarsi. «Ma voi rischiate la vita così tutti i giorni?», chiedo, tesa, quando sento via radio che arrivano diversi warnings (allarmi) sulla possibile presenza di autobombe. «Sì - risponde Longo - e sai qual è il bello? Che siamo orgogliosi di farlo!». Invidio il loro coraggio. Questi militari, penso, sono consapevoli di svolgere una missione importante per la sicurezza della popolazione. Ma non sempre gli afghani sono riconoscenti. Una pietra finisce sull'elmetto del nostro rallista, scagliata da qualcuno tra la folla. Usciamo dall'ingorgo e finalmente raggiungiamo il distretto di Paghman, dove ci ricongiungiamo all'altra squadra. Comincia il pattugliamento congiunto.

La messa in sicurezza delle strade è uno dei compiti importanti che i nostri militari devono svolgere. Qui, a Camp Invicta, tutto continua come prima. Il modo migliore per onorare la memoria dei nostri caduti, perché loro avrebbero fatto lo stesso.

Sabato 19 Settembre 2009
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