Samuel Huntington lo aveva definito l'"uomo davosiano". In modo negativo, l'intellettuale che aveva creato il concetto di "scontro fra civiltà", cercava di definire questa élite fra le persone più influenti del mondo della politica e dell'economia, che una volta l'anno s'incontrano per discutere e proporre soluzioni a problemi in genere da loro stessi creati: il passaggio da una società industriale a una digitale, una carestia continentale, una pace difficile, una crisi finanziaria.
Sarà dunque per un senso di colpa che il quarantesimo meeting del World Economic Forum dedicherà la parte più importante dei suoi lavori a due temi: la tragedia di Haiti e l'ordalia delle banche mondiali. Ieri a Montreal, su iniziativa del governo canadese, è ufficialmente iniziata la fase della ricostruzione: lenta, incerta ma in qualche modo bisognava cominciare. Quella canadese è stata solo una specie di pre-conferenza, giusto per quantificare le necessità. «Sarà un impegno a lungo termine, almeno dieci anni. E non è un'esagerazione», ha detto il premier Stephen Harper. Oxfam e molte altre organizzazioni non governative internazionali chiedono come atto preliminare la cancellazione del debito estero di Haiti: 890 milioni di dollari. «Di fronte alla reale domanda sul terreno il nostro debito è minimo», constata a Montreal il ministro degli Esteri haitiano Jean-Max Bellerive. Il Fondo monetario internazionale pensa a un ulteriore finanziamento da 100 milioni di dollari.
Ma è ancora poco, troppo poco: il governo haitiano chiede 3 miliardi di dollari solo per ricostruire la capitale Port-au-Prince; la vicina Repubblica Dominicana che teme di subire uno tsunami migratorio da Haiti, invoca un piano di assistenza quinquennale più cospicuo: almeno dieci miliardi di dollari. Fra un paio di mesi verrà organizzata la conferenza vera, quella decisiva dei paesi donatori e delle organizzazioni internazionali che devono fissare le cifre necessarie e i tempi minimi.
Intanto l'"uomo davosiano" conta di fare la sua parte. Come era già successo qualche anno fa per l'Africa, mobilitando le multinazionali private, i leader della politica, i nomi più importanti della cultura e della musica. È soprattutto il settore privato che può garantire i necessari investimenti a lungo termine. La quantità di denaro e i tempi per ora solo pensati a Montreal, potrebbero non bastare per costruire un paese unico come Haiti: la centottantesima delle 210 economie del mondo, che non c'era nemmeno prima del terremoto.
Per questo domani, già nel primo giorno del World Economic Forum, Nicolas Sarkozy entrerà nei dettagli della campagna internazionale di ricostruzione dell'economia di Haiti, che aveva proposto nei giorni passati. Giovedì interverrà anche Bill Clinton, che dovrebbe finalmente dare contenuti più concreti alla sua carica di inviato speciale ad Haiti per conto della comunità internazionale.
Perché 2.500 "persone influenti" preoccupate dalla crisi della liquidità, dai consumi e da come vanno le cose a Wall Street, dovrebbero occuparsi così tanto di Haiti, è ovvio. A parte l'aspetto non irrilevante di un comportamento politicamente corretto, è una questione di "contesto". L'economia globale non può discutere di ripresa senza tenere conto dei suoi rischi. E tra questi non ci sono solo gli strumenti finanziari. Come scrive "Time" del World Economic Forum, «sarebbe sorprendente se i delegati non si preoccupassero di due altre questioni, legate ma distinte dalla recessione: un cambiamento nel clima intellettuale nel quale opera l'economia globale e le conseguenze geopolitiche delle crisi e della recessione».

 

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