Dobbiamo temere o invece valutare in positivo - in Europa come negli Stati Uniti - la crescita economica e politica della Cina ? Il Sole24 Ore.com ne ha parlato con G. John Ikenberry, americano, dal 2005 docente a Princeton, dopo aver insegnato all'università della Pennsylvania e alla Georgetown University di Washington, in questi giorni alla Cattolica di Milano come «visiting professor» nei seminari dell'Aseri (Alta scuola di economia e relazioni internazionali), che vedono ogni anno la partecipazione di esperti e studiosi provenienti da alcune tra le più prestigiose università del mondo.

Autore di decine di saggi e di libri come «After the Victory» del 2001, pubblicato in italiano nel 2003 dalle edizioni Vita e Pensiero («Dopo la vittoria»), e «Liberal Order and Imperial Ambition» uscito in inglese nel 2006 e tradotto in italiano ancora da Vita e Pensiero nel 2007 con il titolo «Il dilemma dell'egemone – Gli Stati Uniti tra ordine liberale e tentazione imperiale», Ikenberry fa parte a pieno titolo di quella che viene definita la scuola «liberal» delle relazioni internazionali. Attivo anche nei maggiori think-tank americani, ha maturato anche una significativa esperienza al dipartimento di Stato nella prima metà degli anni 90. Dai suoi scritti si evince la tesi che uno Stato egemone – come gli Usa dopo la vittoria in una «major war» (la fine della Seconda guerra mondiale nel 1945 oppure la caduta del Muro di Berlino nel 1989) – può gestire il suo potere in un contesto di cooperazione e di regole democratiche condivise, accettando il ruolo delle istituzioni internazionali e l'interdipendenza economica.

Professor Ikenberry, è di prossima pubblicazione il suo nuovo libro «Liberal Leviathan: The Origins, Crisis, and Transformation of the American System» (Princeton University Press). Dopo il doppio mandato di George W. Bush, che lei ha criticato come "neoimperiale", qual è il suo giudizio sul primo anno di Barack Obama?
Bush ha provocato una sorta di crisi costituzionale nel nostro sistema di governo, mentre Obama è tornato al più tradizionale ruolo della politica estera americana, quello della partnership e degli accordi multilaterali, com'era già era avvenuto nei decenni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale . Obama si è comunque trovato di fronte a problemi molto seri: la recessione economica, la crisi finanziaria, due guerre in Iraq e Afghanistan, lo stallo del processo di pace in Medio Oriente, relazioni difficili con Mosca e complicazioni crescenti con Pechino. Non è quindi una sorpresa se il presidente, un anno e qualche mese dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, appare in difficoltà. Difficoltà che sono evidenti anche sul piano interno per il contrastato iter parlamentare della sua riforma sanitaria.

Quindi presagi negativi per le elezioni di mezzo termine del prossimo novembre...
I democratici perderanno seggi nelle elezioni di «mid term», ma questo rientra nella normalità. Obama deve però radunare le sue truppe e far capire agli americani che la sua strategia di governo è giusta. Per riprendere i temi della politica estera, ad esempio, rilanciare il processo di pace in Medio Oriente e chiedere al governo israeliano - ma anche alle autorità palestinesi - un atteggiamento negoziale serio e costruttivo, anche imponendo determinate condizioni a entrambe le parti. Non doveva accadere che il ministro dell'Interno israeliano annunciasse la costruzione di 1.600 case per i coloni a Gerusalemme Est araba, proprio durante la visita del vicepresidente americano Joe Biden. In Iraq e in Afghanistan l'impegno militare Usa man mano diminuirà, ma io sono piuttosto pessimista sulla transizione verso la democrazia nei due paesi in pochi anni. Con la Russia credo che ci sia da parte della Casa Bianca un'effettiva volontà di raggiungere un nuovo trattato sulla riduzione delle armi strategiche, che dovrà sostituire lo Start del 1991. Su questo tema, l'imminente missione del segretario di Stato Hillary Clinton a Mosca non è tuttavia priva di incognite.

Veniamo al «secolo cinese» e alle preoccupazioni di chi vede nella Cina una potenza rivale geopolica degli Stati Uniti (e dell'Occidente), quasi in una riedizione del contrasto Usa-Urss ai tempi della Guerra fredda. Qual è la sua opinione?
Tra Washington e Pechino i contrasti ci sono. Prendiamo ad esempio il rapporto dollaro-yuan: si ritiene da parte di molti esperti americani che la moneta cinese sia sottovalutata di almeno il 20-30% rispetto al suo cambio effettivo. Ciò permette alla Cina di esportare di più e quindi di sostenere la crescita del Pil, favorendo anche l'aumento del reddito individuale. Quindi non aspettiamoci che le autorità di Pechino acconsentano a un riallineamento valutario: lo ha ribadito domenica 14 marzo il primo ministro Wen Jiabao. Fa parte di questa strategia legata a una moneta debole anche l'accumulo di riserve in valuta estera da parte cinese, per due terzi in dollari. Ma non ci sarà una nuova Guerra fredda come ai tempi dell'Urss, né si rischia uno scontro nucleare, perché la Cina è molto più integrata nel sistema mondiale di come fosse a suo tempo l'Unione Sovietica: è parte del sistema del commercio mondiale come membro della Wto, ha bisogno di materie prime e risorse energetiche, non ha intenzioni aggressive con il Giappone o l'India. Una Cina che cresce non significa una Cina più pericolosa, anche se con gli Stati Uniti non sarà un matrimonio d'amore, bensì d'interesse nella ricerca di soluzioni di compromesso nelle «global issue»: le questioni climatiche , l' energia, la lotta al terrorismo internazionale, le misure per affrontare la crisi economica. Quando l'estate scorsa una nutrita delegazione di 150 cinesi guidati dal vicepremier Wang Qishan è andata a Washington accolta da un discorso di benvenuto del presidente Obama (e quest'anno saranno gli americani a ricambiare la visita a Pechino), taluni osservatori hanno parlato di unaprova generale del G-2 Washington-Pechino. Io non userei la sigla G-2, ma credo che Usa e Cina non si possono ignorare e devono cooperare pragmaticamente in un genuino sforzo di risolvere insieme i problemi.

 

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