REYKJAVIK-La rabbia, l'umiliazione. E il desiderio di voltar pagina subito. Reykjavik ha votato contro la legge che rimborsava i correntisti britannici e olandesi di Icesave. I primi risultati del referendum danno al «no» uno schiacciante 93,5 per cento.
La partecipazione non è stata alta: il premier Johanna Sigurdardottir ha di fatto invitato a non votare e si sa che la legge è superata e ci sono nuove trattative in corso. Il governo ha così minimizzato l'esito della consultazione, tentando di trasformarlo in un punto di forza al tavolo dei negoziati: «Dobbiamo raggiungere un accordo», ha detto il primo ministro, sperando di resistere così anche alla tempesta politica che potrebbe scatenarsi nel paese. «Questo referendum non ci indebolisce», ha aggiunto il ministro degli Esteri Ossur Skarphethinsson che ha confermato la volontà di Londra e l'Aja di raggiungere un'intesa. Non a caso il ministro delle Finanze olandese Kees de Jager ha subito detto che il voto «è una vicenda interna» dell'Islanda.

Il messaggio inviato dai cittadini è però molto netto. «Vogliamo pagare i nostri debiti, ma solo il giusto: la quota della garanzia sui depositi» dicono in molti. «Erano debiti di una banca privata», aggiungono spiegando che 3,9 miliardi, 40mila euro per famiglia, sono insostenibili. «Siamo ostaggi», si lamentano, riferendosi alle minacce britanniche e olandesi di bloccare l'adesione alla Ue e i prestiti dell'Fmi.

Se le cose andassero così, le conseguenze sarebbero disastrose: «Non riusciremmo a togliere i controlli sui flussi di capitale per dieci-venti anni - spiega l'economista Thórólfur Matthíasson - e nel 2011 non riusciremmo a rifinanziare i debiti. Dovremmo tagliare le spese e aumentare le tasse, con effetti negativi per tre, quattro, cinque anni».
Gli islandesi non sembrano però molto preoccupati. Sotto una leggera nevicata, nel giardino diventato fangoso davanti l'Althing - il parlamento più antico, istituito nel 930 - i cittadini hanno protestato ieri: «Icesave no! no! no!» «Se tolleri questo, la prossima volta toccherà a tuo figlio», «Avere un debito non è così male, è avere un creditore che fa male», «Power to the people», dicono i cartelli. C'è persino un «Avanti popolo», in italiano: «Vogliamo parlare al mondo», spiega Ásgeir. «Difendiamo le nostre case», grida più di un manifestante: «I mutui sono diventati troppo alti - spiega Magnus - Il 30% dei debitori è già insolvente». «Se dovremo pagare anche per Icesave non ci resterà più nulla», aggiunge Thorvaldur. Molti contestano i governi degli ultimi anni, ma sotto accusa è soprattutto il «casinò finanziario» che ha dominato finora: un finto manifesto del film «Inglorious bastards» ritrae i banchieri e i politici che hanno portato il paese alla catastrofe.

L'Islanda ha votato anche contro il neoliberalismo thatcheriano che ha segnato lo sviluppo del paese, ma non c'è sull'isola un atteggiamento anti-business. Lontano dai clamori della piazza, alcuni imprenditori sono persino più radicali. «Non dobbiamo pagar nulla, non siamo obbligati», dice Loftur Thorsteinsson: è il direttore della Hlutverk, attiva nel commercio internazionale. Altri cercano un nuovo modello economico: «Vogliamo risolvere noi i nostri problemi, non vogliamo farci governare da Bruxelles», dice Frosti Sigurjonsson, fondatore di un'azienda internet: pensa che il governo non abbia "visione", chiede riforme e una nuova costituzione.

Non sono casi isolati. Il movimento "dal basso" che ha travolto il precedente governo ha trovato in Gurdjon Mar Gurdjonsson il suo organizzatore: ha 38 anni e ha fondato la prima delle sue aziende Itc a 17 anni, cedendola poi a Nokia. A novembre ha organizzato l'Assemblea nazionale, che vuole trasformare in un organo costituzionale: un gruppo di 1.500 persone, 1.200 sorteggiate e 300 in rappresentanza di aziende e istituzioni, che ha discusso dei problemi del paese. Ora anima il "ministero delle idee", forum di discussione e incubatore di nuove imprese. «L'Islanda - racconta - è stata un laboratorio su "come non fare le cose", vogliamo diventare un laboratorio in positivo: le crisi portano sempre innovazioni». La democrazia, la valuta, l'energia sono i campi in cui Gurdjonsson vorrebbe lanciarsi, creando opportunità per investitori e facendo ripartire il sistema finanziario. Lui e il suo entourage hanno intanto creato diverse aziende di software.

Sono semi di una nuova fase, per l'economia. L'Islanda sembra voler unire l'innovazione alle sue tradizioni, dimenticando il passato di "hub bancario". «Torneremo ai valori nordici: la nostra non sarà più un'economia guidata dalla finanza, ma dall'export, facendo leva soprattutto sul turismo», spiega prudente Matthiasson. «È solo un inizio», ripete entusiasta Gurdjonsson. Per ora però il governo di Reykjavik, diviso all'interno, deve superare l'impasse della crisi diplomatica con la Gran Bretagna: «Per noi è una questione di vita o di morte», ha ammesso il premier, aggiungendo però: «Non siamo mendicanti, non ci faremo trasformare in mendicanti».

 

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