L'enfasi che Barack Obama ha messo sulla riforma sanitaria confonde l'ordine naturale delle priorità per Washington, ordine dominato da una lungamente attesa riforma finanziaria. Se le grandi banche continuano a essere mine vaganti, anche la migliore riforma sanitaria –e quella in dirittura d'arrivo e sospesa a un incerto voto della Camera è solo una mezza riforma – viene costruita sulla sabbia. Ma Obama aveva scelto come simbolo del suo primo mandato la sanità ben prima che la crisi di Wall Street rischiasse di travolgere l'America nell'autunno del 2008, e per una serie di ragioni ha deciso di non cambiare registro. Soprattutto non ha mai voluto antagonizzare troppo – se non verbalmente, un paio di volte - Wall Street, come invece fece a suo tempo Franklin Roosevelt.

Per fortuna, anche nostra data l'importanza che un riordino della finanza americana ha per i mercati globali, un gruppo di senatori democratici sembra deciso a mettere un po' di ordine.

Dalla Casa Bianca, troppo timida e acquiesciente verso Wall Street, non è venuta molta leadership sui temi finanziaria, salvo in un paio di occasioni. Nessuno ha mai offerto al paese una narrativa ufficiale di quanto era accaduto, perché, per responsabilità di chi. E quindi nessuno ha mai cercato di creare un consenso sulle cause, indispensabile per individuare i rimedi. Questo non è stato fatto per un motivo: il Paese ha due visioni contrastanti su cause e rimedi della peggior crisi finanziaria della sua storia (peggio del 29 come portata, ha detto lo stesso presidente Fed Ben Bernanke, anche se non nelle conseguenze). La visione di Wall Street è "sono cose che ogni tot annui succedono, e poi si riparte". La visione di Main Street è che è stato un massacro provocato dai grandi banchieri e a spese del ceto medio, che ha dovuto salvare la situazione.

Due volte Obama si è avvicinato a svolgere quel ruolo di mediatore fra le due visioni che gli compete come Presidente. Lo ha fatto a settembre parlando ai banchieri alla Federal Hall di New York, e lo ha fatto il 21 gennaio annunciando, dopo un anno di ostruzionismo della stessa Casa Bianca, il Volcker Rule, le regole basilari messe a punto dall'ex presidente della Fed, Paul Volcker. Nell'essenza, queste regole dicono che le grandi banche non possono avere la garanzia pubblica se sono troppo grosse, e se fanno investimenti a rischio. La conseguenza: snellimento di alcune banche, e regole più severe in particolare per i derivati.

Il 3 marzo l'esecutivo inviava al Senato la sua versione del Volcker Rule, annacquata perché affidava in certi casi (che sarebbero diventati facilmente la norma) l'interpretazione della fattibilità o meno di acquisizioni e fusioni al Tesoro.

Per fortuna cinque senatori democratici hanno steso la loro versione del Volcker rule, assai più stringente (Jeff Merkley dell'Oregon, Carl Levin del Michigan, Ted Kaufman del Delaware, Sherrod Brown dell'Ohio, Jeanne Shaheen del New hampshire) di quella inviata dal Tesoro. E oggi uno di loro, Kaufman, dovrebbe offrire parlando in aula quella lettura completa e chiara di cause e rimedi che lo stesso Obama, commettendo un errore gravissimo, non ha mai offerto. Non lo ha fatto per non rompere quell'alleanza con Weall Street che gli ha facilitato la vittoria su McCain e che è dimostrata dalla consegna delle leve dell'economie a uomini di provata fiducia – per Wall Street – quali Tim Geithner al Tesoro e Larry Summers direttore del National economic council.

«Senza un discorso definitivo, non c'è nessun punto di riferimento politico – dice l'economista Simon Johnson dell'Mit – non c'è convergenza nel dibattito, e non c'è neppure chiarezza su che cosa dovrebbe essere l'oggetto della discussione». Se Obama ha dei guai seri al momento, lo deve soprattutto al non aver voluto offrire questa chiara lettura agli americani. I quali, avendo perso nella crisi circa 15mila miliardi di dollari su un patrimonio famigliare complessivo di 60 mila, qualche richiesta ce l'hanno.

INCHESTA / I piani anti-speculazione (di Vittorio Carlini)

Disegno di legge sulla Volcker Rule (in inglese)
 

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