Londra esce dalla più lunga notte elettorale dell'ultimo trentennio senza numeri e senza tempo. Al termine della prima metà della crisi economica, quella acuta che ha travolto il credito, e all'avvio della seconda metà, innescata dal dramma greco, si ritrova senza i numeri naturali per sostenere un governo e senza il tempo per cercarli. I mercati promettono di non avere pazienza per le alchimie della politica e i primi fremiti, contenuti, si sono già visti. La prossima settimana, se tanto si dovrà aspettare, le scosse a una costruzione che poggia su un deficit dell'11% e un debito globale in rapida ascesa, promettono di essere molto più violente.
Ne sono consapevoli sia i conservatori, sia i laburisti, sia i liberaldemocratici. Ma questo non significa che siano pronti a mettere l'interesse nazionale, come hanno ripetuto ieri i tre leader, davanti a quello di partito, oltre le ambizioni personali. La lentezza tedesca nel percepire la portata di quanto stava accadendo in Grecia e nell'area euro non dovrà ripetersi sulla scena inglese.
Atene non è Londra, come dicono da Gordon Brown a David Cameron, ma Londra non è più quella che ci eravamo abituati a conoscere e in questa congiuntura economico-finanziaria non può concedersi le asprezze di una mano politica a tre, truccata magari dai veti delle correnti (sono forti anche qui) che attraversano partiti con anime diverse.
Quanto potrà concedere il fronte più euroscettico dei Tory in vista del chiacchierato accordo con gli europeisti liberaldemocratici? E come, per converso, l'anima socialdemocratica del partito di Nick Clegg assorbirà la cordiale intesa che la metà liberale del partito potrebbe instaurare con i Tory? E via così, lungo dinamiche a noi familiari, ma sconosciute a queste latitudini. I mercati non si attendono questo da Londra e, non crediamo, avranno voglia di aspettare, mentre il disavanzo cresce e la forbice dei tagli promessi per risanare i conti resta sospesa per aria. Ecco perché il tempo è essenziale.
D'altro canto, altrettanto essenziali sono i numeri che dovranno essere tondi per guidare il paese verso il più drammatico restauro economico finanziario della recente storia britannica. Il governo di minoranza immaginato da Cameron, in alternativa a un lasso accordo con i LibDem, indebolito, oltretutto, dalla prospettiva implicita di un ritorno alla urne in tempi rapidi, non è la soluzione. Né vediamo luce in fondo al tunnel, che Brown vuole esplorare, di un accordo Lib-Lab. Un vicolo cieco perché i conti dei seggi di Westminster non tornano una volta di più.
Il parlamento "appeso" (senza maggioranza assoluta) uscito dalle urne del Regno, è figlio - crediamo - di un approccio continentale alla politica, fatta di più sofisticati distinguo, e richiede una soluzione politica continentale. Una coalizione formale su un programma minimo che si conceda i tempi per portare a termine, nell'interesse nazionale, il risanamento. Oppure un accordo parlamentare trasversale ancora più ampio, per quanto eccentrico e tutto da definire, con l'identico obiettivo: uscire dall'emergenza economica che la campagna elettorale ha mascherato. E che è emergenza riconosciuta da tutti i maggiori partiti del paese.
Perché tutto ciò possa avvenire nella forma più naturale e più semplice, ovvero con un patto conservatori-liberaldemocratici, la borsa dei Tory si dovrà aprire abbastanza per recepire l'altra grande emergenza figlia di queste elezioni politiche: la riforma del sistema di voto. E non solo perché Clegg la chiede per liberare il suo partito dalla morsa del bipolarismo tattico che lo ha molto ridimensionato rispetto alle aspettative, ma per evitare aberrazioni che paiono sempre meno accettabili all'elettorato. Un esempio per tutti: il governo uscente ha goduto di una solida maggioranza parlamentare con un numero di voti popolari inferiore a quelli raccolti dai conservatori ieri. Conservatori che non superano la soglia della maggioranza assoluta, nonostante si siano garantiti il maggior travaso di consenso degli ultimi ottant'anni.
La frammentazione della scena politica con il consolidamento delle forze del nazionalismo scozzese, gallese, nordirlandese e dei LibDem ha cambiato l'offerta politica del paese. Appare, così, ragionevole riformare il maggioritario secco in chiave parzialmente proporzionale. O almeno sottoporre l'idea, come Brown offre a Clegg, a un referendum popolare. Vorrà dire inaugurare la stagione d'incerte e deboli coalizioni anche nel Regno di Elisabetta? A quanto sembra è un "rischio" dal quale neppure il meccanismo first past the post, ovvero il primo piglia tutto, mette più al riparo.
Dalle urne britanniche escono quindi un incoraggiamento e un'opportunità. L'incoraggiamento ad agire, in fretta e con una soluzione ampia per poter essere credibile, per gestire l'emergenza economica. L'opportunità di voltare pagina aggiornando alle esigenze di oggi un sistema di voto che non riesce più a riprodurre la volontà popolare. Per Cameron, vincitore virtuale della battaglia elettorale, è un passo difficile, ma un leader per farsi statista deve essere disposto al compromesso, immolando alla gloria della politica anche qualche totem del suo bagaglio ideologico.