LONDRA - David Cameron si fa avanti, Gordon Brown freme e Nick Clegg sfoglia i petali, in attesa di annunciare con chi s'accompagnerà. Il giorno dopo le più incerte, caotiche e inconcludenti, per la tradizione nazionale, elezioni politiche, Londra è avvinta a un negoziato su tre fronti dal quale uscirà, probabilmente, un governo debole. Nelle stesse ore in cui cadeva l'ultima, virtuale speranza di una maggioranza assoluta Tory a Westminster (306 i seggi conquistati), David Cameron usciva allo scoperto annunciando la sua disponibilità a lavorare con i liberaldemocratici di Nick Clegg (57 seggi) «nel supremo interesse nazionale».

Un lungo prologo, seguito da un fuoco di sbarramento di condizioni. Non ci saranno cedimenti su Europa, immigrazione e difesa. Ovvero su mezzo programma dei liberaldemocratici che sono fautori di una più sincera integrazione nell'Unione, favorevoli alla sanatoria per i clandestini, sostenitori dell'abbandono del programma di ammodernamento nucleare Trident. L'apertura di Cameron è sul programma di risanamento economico dove «esistono margini d'intesa» fra i programmi dei due partiti. Lo stesso vale per capitoli specifici della politica energetica e sul fronte della tassazione. E poi? Cameron propone un compromesso su quello che i LibDem considerano passaggio essenziale per garantire il proprio sostegno: la riforma del sistema elettorale. Nel corso della giornata era maturata la sensazione che il leader Tory fosse pronto a concedere un referendum popolare, tenendosi però le mani libere per fare campagna a favore del mantenimento dell'attuale sistema, quel first past the post, maggioritario secco, che ha consegnato a Londra il secondo parlamento senza maggioranza assoluta degli ultimi trent'anni. E la sensazione era che tanto sarebbe bastato a Nick Clegg per gettare gli ultimi petali e lanciarsi fra le braccia di Cameron. Il leader conservatore, forse, tiene quella cartuccia come ultima riserva. Forse. Di sicuro ieri non l'ha mostrata limitandosi a dire che il compromesso a lui più caro prevede «la creazione di un comitato parlamentare fra tutte le forze di Westminster per studiare la riforma elettorale». La stessa cosa promise Tony Blair all'allora leader LibDem, Paddy Ashdown, nel 1997. Parole scritte nella sabbia e dalla sabbia scomparse al primo colpo di vento del dopo voto. La decisa affermazione dei laburisti alle elezioni portò alla creazione della Commissione Jenkins per la riforma elettorale che arrivò a proporre un meccanismo di voto, il cosiddetto "AV più" che non è un gruppo sanguigno, ma il sistema australiano corretto con forti dose di proporzionale. Rimase una proposta, travolta come fu dai dissidi fra LibDem e laburisti sulla guerra in Iraq e dalla spocchia di Blair che dei valenti uomini di Ashdown non aveva bisogno.

Nick Clegg e tutto il partito liberaldemocratico oggi teme che possa accadere lo stesso e, crediamo, terrà ferma la barra nonostante la grande tentazione che Cameron gli ha sventolato: la partecipazione formale al governo con uomini nel gabinetto e ministeri di peso. Non è stato detto quali, perché sui negoziati è calato il sipario, ma dovranno essere significativi visto che senza i LibDem, Cameron non andrà lontano. L'intesa con i liberaldemocratici è l'unica possibilità reale per i Tory di formare un esecutivo: in parlamento non ci sono i numeri per maggioranze alternative, nemmeno con i partiti del nazionalismo britannico. L'alternativa è un esecutivo di minoranza che significa ritorno alle urne entro un anno. Ipotesi plausibile in tempi normali, estremamente complessa nella contingenza di una crisi che fiacca i bilanci dello stato come mai prima d'ora.

La via è tracciata, ma non è l'unica. Freme, abbiamo detto, Gordon Brown, forte comunque dei 258 seggi ottenuti. «Ho il dovere costituzionale - ha detto sull'uscio di Downing street - di cercare di formare un governo. Rispetto la decisione (riaffermata ieri n.d.r) di Nick Clegg di voler cercare un'intesa con il partito che ha vinto il maggior numero di seggi e di voti. Da parte mia intendo incontrare tutti i leader delle forze in Parlamento, ma con Clegg concordo su due punti: l'urgenza della stabilità economica, la necessità di riformare il sistema elettorale se così vorranno i cittadini». Ovvero sì al referendum e al cambiamento in chiave proporzionale. Parole che stimolano i liberaldemocratici se non fosse per quella deprimente etichetta che è già stata coniata in caso di intesa Lib\Lab, la «coalizione degli sconfitti».

Il quadro è comunque magmatico e gli sviluppi ancora incerti. Le trattative entreranno nel vivo oggi quando si riuniranno i gruppi parlamentari dei liberaldemocratici. Gli umori della base daranno a Clegg il polso della situazione. Per capire se la sua disponibilità a negoziare prima con Cameron, poi, se necessario, a tutto campo, è condivisa da deputati eletti in misura estremamente inferiore da attese deluse da un SuperClegg dissolto, fagocitato com'è stato dal sistema di voto. Almeno dal suo punto di vista.