Per la contrattazione è un momento difficile anche in Europa. Ed anche la concertazione vive un momento di difficoltà. Questa situazione risulta evidente seguendo le vicende di due questioni che tengono banco nelle relazioni a livello comunitario: il lavoro interinale ed il telelavoro. Ma la Commissione Ue, appoggiata dallo stesso Consiglio Europeo, non sta a guardare.

Di fronte alle divergenze che separano Unice e Ces su questi temi, le istituzioni comunitarie non si propongono certo in veste di mediatori ma con cautela cercano tuttavia di scongiurare il rischio di rotture che sarebbero molto difficili da ricomporre. Ne sappiamo qualcosa in Italia dove l'isolamento della Cgil è certamente un fatto negativo. Non a caso i capi di Stato e di Governo, riuniti attorno a Prodi per il vertice di primavera dell'altra settimana a Stoccolma, si sono per la prima volta occupati di relazioni industriali, auspicando che i negoziati in corso su lavoro interinale e telelavoro abbiano "un esito positivo".

In verità, almeno per quanto riguarda il lavoro temporaneo, le vere divergenze si registrano fra le diverse Confindustrie nazionali. In Svezia, Danimarca e Regno Unito questa tipologia di lavoro è assai meno regolata che in Italia o in altri Paesi mediterranei. Non esistono causali specifiche per limitarne l'utilizzazione, non si pratica la parità di trattamento tra lavoratori interinali e quelli alle dipendenze delle imprese utilizzatrici. Addirittura ad essi si può ricorrere per sostituire altri addetti scesi in sciopero. Non è quindi sorprendente che le trattative si siano rotte (o interrotte, secondo la benevola interpretazione della Commissione). Prodi e la Commissaria Diamantopoulou sono scesi in campo ed incontreranno nuovamente le parti. Esiste la preoccupazione che il dialago sociale comunitario entri in crisi.

Ma forse non bastano interventi, seppure così autorevoli, per rialzare le sorti di un rapporto concertativo fra imprenditori e sindacati. Bisogna anche fare uno sforzo progettuale, come sta avvenendo nel caso dell'altra vicenda, quella sul telelavoro. A tal proposito la Commissione ha avviato il secondo stadio di consultazione previsto dal Trattato Ue (sui contenuti, cioè, dell'eventuale iniziativa comunitaria). Per tutta risposta l'Unice ha prospettato l'idea di concordare non tanto un contratto collettivo, destinato a divenire direttiva (come nel caso del part-time e del lavoro a termine), quanto semplici guidelines che i contraenti si impegnerebbero a trasferire sul piano nazionale attraverso le associazioni affiliate. Un modello già in corso di sperimentazione, sempre sul telelavoro, nel settore delle telecomunicazioni.

Dunque, dopo le "norme leggere" (le soft laws utilizzate in materia di occupazione), avremmo anche gli "accordi collettivi leggeri"? Le parti sociali potrebbero anch'esse negoziare sulla base di obbiettivi anziché di regole. Non è difficile immaginare che una contrattazione collettiva costruita sul management by objectives e sul benchmarking potrebbe rilanciare un dialogo sociale meno regolatorio e più promozionale, certo assai adatto nella prospettiva dell'allargamento dell'Unione. Ma questo nuova tecnica sarebbe di grande utilità anche a livello nazionale, dove l'evoluzione dell'organizzazione del lavoro reclama ormai la sperimentazione di diverse tecniche regolatorie concordate dalle stesse parti sociali.





 

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