Gli svizzeri hanno detto no alla riduzione dell'orario di lavoro a 36 ore. La proposta era stata avanzata dall'Unione sindacale svizzera. Il 74,4% dei votanti nella consultazione referendaria di domenica scorsa (quella in cui si è invece deciso di aderire all'Onu) ha respinto l'idea di intervenire con questo strumento piuttosto che attraverso un negoziato con le parti sociali. Si tratta di una prova di maturità che dimostra, ancora una volta, come in relazione alla materia del mercato del lavoro non siano applicabili provvedimenti decisionali che invece sono pienamente legittimi con riferimento ad altre questioni.

L'esito delle urne è risultato negativo in tutti i Cantoni. Addirittura nella Svizzera interna la percentuale di oppositori è stata superiore all'80%, mentre nella Svizzera romanda c'è stata un'oscillazione fra il 60 ed il 70 per cento. Il Canton Ticino, sicuramente quello a noi più vicino, si è opposto con il 62,4 per cento. Occorre tener presente che la partecipazione al voto è stata assai alta (57,41% degli aventi diritto), anche se è ben evidente l'effetto di trascinamento dovuto all'adesione all'Onu, sicuramente di maggior impatto sull'opinione pubblica. In ogni caso si è trattato di una risposta assolutamente chiara su una materia che si poteva prestare a riflessioni di segno anche assai diverso.

Inutile dire che vengono alla mente le polemiche che hanno accompagnato la legge sulle 35 ore in Francia e quelle, lontane ormai, ma non per questo dimenticate, che infuocarono la scorsa legislatura quando il Governo Prodi cercò di venire a capo della vertenza sulle 35 ore. La risposta della Svizzera è sicuramente interessante perché dimostra quanto talvolta l'opinione pubblica sappia reagire con senso di responsabilità e ragionevolezza di fronte a proposte che pure si manifestano con una forte carica di attrazione. Come poter negare che è difficile resistere alla tentazione di lavorare meno, anche se forse questo non significa far lavorare tutti. Nel segreto dell'urna spesso si consumano piccoli scambi fra il votante ed il quesito referendario che non sono fra i più nobili. Eppure il rifiuto di una prospettiva del genere è stato netto e sicuramente a noi italiani torna alla mente un altro memorabile sussulto di responsabilità, il referendum sulla scala mobile.

Il referendum svizzero che rifiuta la soluzione facile della riduzione dell'orario di lavoro è dunque un'ennesima lezione delle reali aspettative dell'opinione pubblica. Non che i lavoratori svizzeri non gradiscano una riduzione dell'orario, visto che l'attuale settimana di 42 ore rappresenta una media del lavoro fra le più altre del mondo. Ciò che non li ha convinti è stata la procedura: non è con un voto che si possono risolvere questioni delicate come quella dell'orario. Occorre sperimentazione, è necessario verificare con le parti sociali le possibili soluzioni, è insomma consigliabile un approccio pragmatico e realistico al tempo stesso. L'orario è sicuramente una di quelle materie dove non ha senso imporre regole dall'esterno, siano esse stabilite per legge oppure attraverso un referendum. L'autoregolamentazione deve essere il principio cardine per creare relazioni industriali davvero collaborative e partecipative.
Anche in Svizzera il sindacato ha dunque subito la tentazione di utilizzare la scorciatoia del referendum, anziché passare attraverso la strada maestra del negoziato. L'appello alle masse può diventare un espediente per sottrarsi al confronto di merito, anche se la materia è obiettivamente controversa. Riduzioni concordate dell'orario possono essere molto utili per l'occupazione: ma non è il punto di merito che qui interessa sottolineare.

Vale invece la pena far presente anche nelle vicende di casa nostra che le legittime espressioni di massa, come scioperi e manifestazioni, hanno in sé elementi di genuinità ma anche di scarsa ponderazione. É necessario rendersi conto, come hanno fatto gli elettori svizzeri, che occorre innanzitutto preservare e sviluppare la competitività di un sistema economico, senza appesantirlo di inutili vincoli ma restando irremovibili sui principi fondamentali della tutela dei lavoratori. Semmai si tratta di rimuovere quei vincoli che ostacolano il pieno dispiegarsi delle potenzialità occupazionali delle imprese, soprattutto delle più piccole. E se si votasse su un ipotetico quesito di questo genere, sicuramente la maggioranza degli italiani non avrebbe esitazioni a scegliere la modernizzazione delle nostre regole del mercato del lavoro.

 

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