Al fotofinish il Parlamento ha approvato definitivamente la <revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore>. Attesa da tanti anni, questa riforma era stata negoziata senza successo dalle parti sociali all'inizio della legislatura. Preso atto dell'impossibilità di acquisire un'intesa, il Governo Prodi nominò una Commissione di studio, presieduta da Stefano Zamagni, che in tre mesi di approfondimenti preparò un progetto.

Dopo tre anni di difficile navigazione parlamentare, la riforma viene varata. Non è certo il testo che Zamagni e i suoi colleghi avevano confezionato, ma si tratta pur sempre di una riforma modello perché contribuisce a modernizzare - almeno metodologicamente - l'intero diritto del lavoro.
Innanzitutto si ammette che la stessa prestazione lavorativa (svolta a favore di una cooperativa, in questo caso) possa comportare l'instaurazione di un <rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale>. Ciò implica il riconoscimento che una medesima prestazione di lavoro può essere resa a diverso titolo a seconda delle intese raggiunte dalle parti contrattuali.

Non solo, ma il legislatore ricorre finalmente a una formula aperta, ammettendo che si possa lavorare in forma subordinata, autonoma, parasubordinata <o in qualsiasi altra forma>. Con questa dizione si supera finalmente il principio del numerus clausus nelle tipologie contrattuali lavoristiche. Almeno in cooperativa si potranno concordare le più varie soluzioni negoziali che incontrino il gradimento delle parti. Una ventata di common law nel nostro ordinamento, finalmente una apertura forse non destinata a rimanere confinata al mondo particolare delle cooperative di produzione e lavoro che comunque oggi escono da questa riforma grandemente avvantaggiate rispetto alle imprese private.
Di grande interesse è anche la tecnica di intervento legislativo, assai più attenta alle tutele che alla definizione nominalistica della tipologia contrattuale. L'articolo 2 della riforma impone infatti il rispetto dei principi fondamentali in tema di libertà sindacale e tutela della salute a prescindere dalla forma contrattuale, subordinata, autonoma o altro ancora, assunta dall'attività lavorativa protetta. Un minimo comun denominatore inderogabile sopra il quale sarà la contrattazione collettiva a disporre le ulteriori e più intense tutele.

Un'impostazione diametralmente opposta rispetto al disegno di legge sulle collaborazioni coordinate e continuative approvato dal Senato a metà legislatura e per fortuna non confermato dalla Camera dei Deputati, che non è più riuscita a trovare il bandolo della matassa.
Anche in materia retributiva le soluzioni sono moderne e innovative. É giusto infatti che i regolamenti delle cooperative di produzione e lavoro non possano in linea di principio richiamare minimi retributivi inferiori a quelli definiti dalla contrattazione collettiva (sempre che si tratti di lavoro subordinato). Ma se sono coinvolti in cooperativa lavoratori autonomi (comprese le collaborazioni non occasionali) ci si dovrà rifare solo <ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo>. Il che significa in pratica alle tariffe di mercato. Se si vorrà in futuro regolare il lavoro parasubordinato, ecco un modello già pronto per l'uso. E anche per i dipendenti avrebbe senso ammettere deroghe contrattate ai minimi retributivi in caso di crisi aziendale o promozione di nuove attività d'impresa. Il legislatore della riforma cooperativa (articolo 6) ha proprio ragione: non è sottosalario, purché sia negoziato.

 

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