Mentre in Italia la direttiva sul contratto a termine suscita un dibattito politico non sempre facile da decifrare, in altri Paesi dell'Unione europea si approfitta anche di questa occasione per regolare in modo semplice ed efficace le assunzioni temporanee. E di fronte a un'efficacia traspositiva così disarmante, è davvero il caso di chiedersi che senso abbiano certi bizantinismi di casa nostra. Il Governo Blair ha redatto la sua proposta che diventerà ben presto legge.

La nuova normativa entrerà in vigore nel Regno Unito il 10 luglio 2001, implementando appunto la direttiva 99/70/EC. Essa stabilisce che i dipendenti assunti a termine non potranno ricevere un trattamento meno favorevole rispetto a quello accordato ai lavoratori titolari di un rapporto a tempo indeterminato. Tale principio non riguarda però la retribuzione: da tale esclusione può quindi dedursi che un dipendente inglese a termine potrà essere remunerato meno di un collega assunto stabilmente, pur eseguendo un'attività lavorativa del tutto simile. Non solo, ma il datore di lavoro potrà decidere per un trattamento differenziato anche sulla base di <ragioni giustificate>, cioè motivando adeguatamente la propria determinazione che non dovrà essere discriminatoria, ancorandola soltanto alla diversa tipologia contrattuale.

Le prospettive occupazionali dei lavoratori assunti a termine nel Regno Unito non sono certo collegate a eventuali vincoli individuati dal legislatore. Ad essi non viene accordata alcuna priorità se si prospettano opportunità di assunzioni permanenti. Semplicemente viene affermato il diritto di essere informati circa possibili posti di lavoro stabili. Qualora il datore di lavoro non ottemperi a tale obbligo di informazione, il dipendente potrà adire le vie giudiziarie.

Fin qui nulla di sorprendente, anche perché la direttiva comunitaria non limita in nessun modo la prima assunzione a termine. Al contrario la incoraggia, ritenendola un ottimo strumento per promuovere l'occupazione, anche se impone alle normative nazionali di intervenire per evitare abusi nell'utilizzazione di una successione di contratti a termine. Tradotto in diritto, per il Regno Unito questo principio significa che uno stesso lavoratore non può essere titolare di contratti a termine - rinnovati senza soluzione di continuità - per più di quattro anni. Qualora si superi questo limite, l'assunzione si intenderà a titolo permanente. Nessuna conversione del rapporto, con presunzione di durata indeterminata fin dall'inizio: semplicemente il periodo eccedente il quadriennio verrà considerato un nuovo rapporto permanente.

Ogni commento appare superfluo. Basti ricordare che in Gran Bretagna non soltanto non esistono causali per l'assunzione a termine, ma neppure limitazioni quantitative circa il numero di contratti stipulabili e in sostanza ben pochi limiti anti-abuso. Anche la soglia di quattro anni può essere facilmente aggirata, soltanto che l'imprenditore abbia l'avvertenza di provvedere ad assunzioni con intervalli di tempo (anche minimi) fra l'una e l'altra. Le disquisizioni di casa nostra appaiono del tutto sproporzionate, considerato che un investitore americano o asiatico avrà ben pochi dubbi su quale sia il Paese più conveniente per investire. Il paragone è impietoso.

La logica della globalizzazione ha un effetto boomerang: certe tutele finiscono per penalizzare i beneficiari. Tuttavia un'ultima considerazione dovrebbe trovare tutti d'accordo, anche Confindustria e Cgil. Le direttive comunitarie consentono spazi amplissimi di trasposizione e non costituiscono più strumenti per governare la concorrenza, assicurandone la correttezza. Occorre trovare altre tecniche, anche più chiare, nell'incoraggiare l'utilizzazione di tipologie contrattuali in funzione promozionale dell'occupazione di qualità, per indurre il Regno Unito di Blair a credere di più nel modello sociale europeo, per spingere l'Italia a modernizzare senza drammi o strappi le regole del mercato del lavoro.


 

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