Più occupazione, ma soprattutto più posti di lavoro di buona qualità. Questo è il messaggio principale contenuto nel recentissimo documento della Commissione Europea Employment in Europe 2001, indirizzato agli Stati membri dell'Unione Europea. Non basta (come pure è necessario) moltiplicare gli sforzi per creare maggiore occupazione. Occorre che alcuni Paesi (fra cui l'Italia) migliorino la qualità del lavoro, onde evitare una eccessiva segmentazione del mercato che favorisce l'esclusione sociale, a sua volta considerata l'anticamera della disoccupazione.

Le analisi della Commissione sono molto utili per inquadrare la situazione italiana. In sintesi, c'è ancora troppo poco part-time nel nostro mercato del lavoro. Certo, questo strumento ha creato più occupazione di quanto non sia stato possibile con lavori a tempo pieno, ma siamo pur sempre in coda alla lista degli utilizzatori, seguiti solo da Spagna e Grecia. E soprattutto lo usiamo troppo poco (sotto l'8% fra i 55 e i 64 anni) per favorire l' invecchiamento attivo. Più in generale l'uso dei lavoro temporaneo è ancora basso (sotto il 13%) e non a caso il nostro indice di disoccupazione non è lontano da quello spagnolo ed ellenico. La Commissione è soprattutto preoccupata del fatto che quasi un italiano su tre fra i 15 e i 24 anni sia disoccupato e che il nostro mercato del lavoro sia praticamente ingessato quanto a mobilità occupazionale. Nella Ue il 10% dei lavoratori altamente qualificati ha cambiato posto nell' ultimo biennio (nel Regno Unito, Danimarca, Francia e Svezia si tocca il 12%): l'Italia è all'ultimo posto con il 5%.

Non meno confortanti sono i dati riguardanti la mobilità geografica: difatti, nell'anno accademico 1997/98 solo 16.560 studenti italiani hanno studiato all'estero con il progetto Erasmus, contro oltre 30mila francesi, tedeschi, britannici e spagnoli. Anche se non si tratta di un problema solo italiano: si parla tanto (spesso con enfasi eccessiva) della libertà di movimento dei lavoratori su scala comunitaria, dimenticando che nel 2000 soltanto lo 0,1% dei cittadini europei ha cambiato residenza da uno Stato all'altro.
Ma le preoccupazioni di Bruxelles sono concentrate soprattutto sul profilo della qualità, a proposito del quale è stato diramato negli ultimi giorni un altro documento, intitolato significativamente Employment and social policies: investing in quality. Dal rapporto risulta che il 70% dei lavoratori europei sarebbe soddisfatto del proprio impiego, mentre un buon 30% non lo è per nulla. Non sono contenti soprattutto i lavoratori assunti a termine o con rapporto interinale, nonché quelli che involontariamente hanno un contratto part-time. In Italia (assieme a Grecia e Portogallo) sono soprattutto le donne ed i giovani in possesso di un'alta professionalità a reclamare maggiore qualità di occupazione. Inoltre, come detto, l'italiano fa più fatica di altri a transitare da un lavoro all' altro, alla ricerca di una migliore occupazione. Oltre l'80% dei dipendenti è rimasto nello stesso posto per più di due anni, contro una media comunitaria del 73,5 per cento. Manca ancora molta formazione: solo un lavoratore su tre in Europa è coinvolto in processi formativi e con una media di poco superiore a quattro giornate all'anno.

Oltre un quarto del totale dei dipendenti europei si considera a rischio dal punto di vista della tutela della salute e sicurezza. Si intensificano i ritmi di lavoro, con un incremento di stress, con conseguenze negative sulle figure più vulnerabili, quelle titolari di forme di lavoro precario. Rilevando questa situazione, la Commissione tenta una divisione dei lavori in quattro categorie: i cosiddetti dead-end jobs, quelli cioè precari e comunque molto brevi, senza alcun tipo di intervento formativo (8% in Europa), i low pay/productivity jobs, caratterizzati da una retribuzione inferiore alla media, accompagnati da un livello minimo di stabilità o di formazione (17%), i decent jobs, con un grado accettabile di stabilità di impiego e formazione (37%), e infine i good jobs, con sicurezza di impiego, opportunità formative e prospettive di carriera (38%).

Secondo Bruxelles i lavori "decenti" e quelli buoni in Italia sarebbero circa il 60%, quelli decisamente cattivi circa il 10% (come in Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda). Dunque si prefigura in Europa e in particolare nel nostro Paese un mercato del lavoro duplice, con necessità di intervenire sulla quota cospicua di lavoratori che è a maggior rischio di esclusione sociale, ha minori opportunità di miglioramento professionale e quindi rischia più facilmente di scivolare nella disoccupazione.

Una situazione per nulla rassicurante in Europa, secondo la Commissione, con alcuni Paesi come l'Italia particolarmente a rischio (anche perché si parla ovviamente di lavoro regolare, senza contare il sommerso che per definizione è di cattiva qualità). Di qui la decisione dell'Unione europea, già assunta nel Consiglio europeo di Stoccolma in primavera, di adottare alcuni criteri vincolanti per costruire lavoro di buona qualità, garanzia di uno sviluppo socialmente sostenibile, a presidio della stessa coesione sociale. Tali criteri verranno concordati nel Consiglio europeo di Laeken in dicembre e l'Europa avrà quindi nuove regole che verranno inserite nelle linee guida per il 2002 nel processo di "coordinamento aperto" sull'occupazione a livello comunitario.

Le proposte della Commissione sono già sul tavolo. Un lavoro di buona qualità deve essere intrinsecamente soddisfacente, permettere lo sviluppo di nuove competenze, attraverso la formazione continua e lo sviluppo delle carriere. Inoltre deve rispettare gli standard comunitari in materia di salute e sicurezza, combinando flessibilità e sicurezza, dunque realizzando l'adattabilità della forza lavoro. Si devono realizzare posti di lavoro che consentano l'inclusione sociale e l'accesso al mercato del lavoro, con un'organizzazione che coniughi responsabilità professionali con la vita personale e familiare, naturalmente nel rispetto del principio di uguaglianza e non discriminazione.

Come realizzare tutto ciò? La risposta della Commissione è nella partecipazione dei lavoratori e nel dialogo tra le parti sociali. Di tutto questo Governo, imprenditori e sindacati dovranno discutere negli incontri previsti dopo le ferie. L'obiettivo è semplice: diffondere ancor più i "buoni lavori", modernizzando forme permanenti o comunque stabili di occupazione, attraverso interventi di flessibilizzazione e formazione, così da contrastare il precariato, spesso sinonimo di dipendenti non fidelizzati, poco motivati e quindi scarsamente produttivi. Ormai l'agenda del dialogo sociale è in larga parte predeterminata da Bruxelles: spetta ora agli attori nazionali trovare le soluzioni più appropriate. Cambiare la regolazione del mercato del lavoro è necessario: è quindi tempo di proposte concrete e non più di inutili chiusure.

 

Shopping24