La vicenda del contratto dei metalmeccanici ha riaperto la questione della rappresentanza e rappresentatività nel nostro sistema di relazioni industriali. Secondo la Fiom-Cgil la raccolta di firme dimostrerebbe che un alto numero, forse maggioritario, di lavoratori sia contrario all'accordo: quindi si richiede l'indizione di un referendum.
Per la verità non è ben chiaro a chi venga rivolta quest'ultima richiesta: se per caso il destinatario fosse il ministro del Lavoro è bene chiarire subito che egli non ha alcun potere in merito. Ma anche a prescindere da questo genere di rilievi resta il problema di fondo di una organizzazione, la Cgil, che vorrebbe procedere con verifiche elettorali o referendarie all' accertamento della volontà dei lavoratori.
Oggi si insiste sul referendum dei metalmeccanici ma più in generale si chiede una disciplina che per legge regoli le rappresentanze sindacali unitarie (Rsu) e quindi consenta di accertare il grado di rappresentatività elettorale delle diverse organizzazioni.
Ricorrere a questo genere di soluzioni, richiamarsi al numero di voti ottenuti nelle elezioni per affermare la propria rappresentatività, è una soluzione che ha sempre dato risultati non convincenti nell'esperienza comparata. Anche quando, come negli Stati Uniti degli anni 30, si tentò di favorire l'ingresso dei sindacati nelle aziende, impedendo la concorrenzialità fra diverse organizzazioni e affermando la regola maggioritaria: chi ottiene la maggioranza dei voti rappresenta tutti. Il risultato catastrofico è sotto gli occhi di tutti: il sindacato americano è un attore del tutto marginale.
Un errore analogo fu ripetuto dai conservatori all'inizio degli anni 70 nel Regno Unito: fu promulgata una legge sulle relazioni industriali che proibiva il closed shop (cioè l'intesa fra azienda e sindacato che lega il posto di lavoro alla sindacalizzazione) a favore di meccanismi elettorali. Questo provvedimento fu completamente ignorato dalle stesse parti sociali che preferirono continuare nella logica del reciproco riconoscimento e alla fine fu abrogato.
Anche la Spagna post-franchista ha sperimentato meccanismi elettorali per riconoscere efficacia generalizzata ai contratti collettivi, cioè estendendoli anche ai non iscritti. Lungi dal consentire un chiarimento, i rapporti tra il sindacato comunista e quello socialista sono rimasti conflittuali o comunque caratterizzati da un'accentuata rivalità, senza alcun effetto di stabilizzazione sul sistema di relazioni industriali.
E del resto la Francia è un esempio di saggezza in proposito. É certamente possibile verificare indirettamente il grado di rappresentatività dei diversi sindacati in occasione delle elezioni dei probiviri, ma non si trae da ciò alcuna conseguenza quanto all'efficacia dei contratti collettivi. La decisione di estendere erga omnes l'accordo, quasi sempre separato, è rimessa all'apprezzamento politico, discrezionale e insindacabile, del ministro del Lavoro. Anche in Germania il decreto di estensione erga omnes è una prerogativa politica che non si basa su alcun dato elettorale ma è relativa all'esistenza o meno di un pubblico interesse.
Ricorrere al voto per decidere chi sia più rappresentativo è dunque una soluzione che non farebbe altro che esasperare le divisioni già profonde fra le nostre organizzazioni sindacali, destabilizzando ancor più il sistema di relazioni industriali nel suo complesso. La stipula di un contratto collettivo, specialmente in assenza di una procedura di estensione della sua efficacia per la perdurante inattuazione dell'art. 39 della Costituzione, non può non essere rimessa alla volontà delle parti sociali sulla base del reciproco libero riconoscimento.
Quanto al Governo, ogni intervento che presupponga l'espressione di un avviso comune, dovrà essere liberamente apprezzato in sede politica al fine di valutare il grado di consenso raccolto. Non si tratta soltanto delle direttive comunitarie: ora il Governo ha introdotto un nuovo genere di avviso comune, relativo alle materie contenute nella delega recentemente richiesta al Parlamento in materia di mercato del lavoro. Il rilievo da riconoscersi anche a questa forma di espressione del dialogo sociale, con l'impegno di tradurne i risultati in norme giuridicamente vincolanti, non può non essere materia di valutazione politica da parte dell'Esecutivo.
In ogni caso qualunque intervento in materia di rappresentanza e rappresentatività delle parti sociali dovrebbe fondarsi su un'intesa preventivamente raggiunta da tutte le maggiori organizzazioni. Una sorta di patto che definisca le regole del gioco e che trovi davvero tutti d'accordo. Solo nell'ipotesi in cui si determinasse un ampio consenso di questo genere, unicamente in questo caso varrebbe la pena porsi nell'ottica di tradurre in legge le nuove regole. Diversamente è doveroso che il Governo rispetti il libero riconoscimento delle parti sociali, come gli impone lo stesso principio di libertà sindacale.
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