AI recenti interventi del Governo in materia di lavoro continuano ad allontanarci dall'Europa. Negli altri Stati Ue si cerca in tutti i modi di rendere la legislazione del lavoro attraente per gli investitori stranieri. Si moltiplicano così interventi di semplificazione delle regole e in sostanza di alleggerimento delle tutele collettive. I Governi si sforzano così di realizzare le aspettative delle imprese (per frenarne le tendenze alla delocalizzazione) e anche quelle dei lavoratori, sempre più interessati a concepire il rapporti in termini individuali. Per non parlare delle tecniche di regolazione: si punta sull'intervento amministrativo, lasciando alla legge un ruolo di tutela dei diritti fondamentali. Rispetto a tutto questo l'Italia appare sempre più lontana.

Negli ambienti della Commissione europea ci si domanda con stupore quale logica abbia ispirato i decreti in materia di trasferimento d'azienda e di lavoro a tempo parziale.
La Commissione europea di solito vigila sui Governi affinché nel trasporre le direttive non introducano nel loro ordinamento interno norme meno favorevoli ai lavoratori. Il timore è che la procedura traspositiva sia strumentalizzata per varare misure meno garantiste di quelle previste dalla direttiva. In Italia accade esattamente il contrario: si introducono norme sempre più rigide rispetto agli standard comunitari, creando le premesse per la fuga delle imprese all'estero, il dilagare del lavoro sommerso, insomma la mancata modernizzazione del nostro diritto del lavoro.

Bruxelles tace ufficialmente, ma circola la battuta ironica secondo cui il nostro è diventato un Paese dove si diffondono "cattive pratiche" sull'occupazione.
Il decreto sulle cessioni d'azienda è una nuova occasione mancata. La direttiva comunitaria prevede l'obbligo di informazione "in tempo utile": il legislatore italiano traduce il principio in 25 giorni prima dell'"intesa vincolante". Anziché governare il delicato processo di trasferimento si introduce una regola addirittura più vincolante di quella vigente in precedenza. In questo modo l'investitore straniero è sicuramente disincentivato visto che l'eventuale cedente italiano deve sottostare a queste forche caudine. Anche il decreto sul part-time denota la più totale disattenzione rispetto alle indicazioni comunitarie che escono del tutto capovolte. La direttiva intende diffondere, cioè facilitare, il lavoro a part-time di qualità, cioè senza discriminazioni rispetto all'orario pieno. Il legislatore italiano per tutta risposta introduce il diritto di ripensamento rispetto alle intese sulle clausole elastiche. Chi accetta la possibilità di variare la collocazione temporale della prestazione lavorativa, può ripensarci. Un istituto inesistente altrove, che ha suscitato fra i cultori di diritto comparato addirittura ilarità. Purtroppo è invece una realtà drammaticamente seria: anche la nuova redazione del decreto contiene vincoli che confermano lo sfavore legislativo nei confronti di questa tipologia contrattuale. Legge e contrattazione collettiva ingabbiano l'impresa costringendola all'alternativa di sempre: cercarsi da sola la flessibilità o soccombere.

Sul part-time c'è poi l'aggravante che il Governo ha completamente saltato la consultazione e l'eventuale concertazione con le parti sociali. É inutile in proposito che il ministro del Lavoro si rammarichi di una mancata intesa che il Governo non ha promosso. L'obbligo derivante dal Trattato Ue è quello di affidare alle parti sociali la trasposizione: il Governo può intervenire solo se queste non si rendono disponibili. Il decreto sul part-time appare dunque illegittimo per vizio della procedura di trasposizione. Sarebbe ora che qualche organizzazione ne chiedesse ragione alla Corte di Giustizia europea. Anche perché siamo alla vigilia della conclusione della trattativa sul contratto a termine. Assisteremo a un altro improvvido intervento del Governo? Vedremo. Ma se per ipotesi tutte le associazioni datoriali (ignorate nella loro opposizione al decreto part-time) fossero d'accordo con alcune confederazioni sindacali rappresentative a concludere un accordo traspositivo sulle assunzioni a termine, cosa farà il Governo? Speriamo prevalga la cultura europeistica di molti ministri e si rinunci a rincorrere gli arroccamenti antistorici di un solo sindacato.

 

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