Ue: comincia l'era dei patti sociali con un occhio al dopocrisi
di Antonio Pollio Salimbeni (corrispondente da Bruxelles di Radiocor)*
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BRUXELLES – La Daimler ha raggiunto un accordo con il sindacato per ridurre il costo del lavoro di due miliardi di dollari quest'anno con un taglio dell'orario di lavoro per 68mila dei 141mila addetti in Germania e per gli altri 73mila con un salario ridotto del 14%. Per tutti rinvio di sette mesi dell'aumento del 2,1% della retribuzione decisa l'anno scorso.

In Svezia, la If Metall (quattrocentomila iscritti) ha decretato lo "stato di urgenza" e accettato di tagliare orario e salario fino al 20% del reddito. Un salariato potrà lavorare due giorni la settimana, essere in formazione un giorno e in ‘disoccupazione' due giorni conservando l'80% della busta paga. In alcune aziende metalmeccaniche, però, i dipendenti rinunciano al 10% del salario fra il primo marzo e il primo giugno a parità di orario con otto ore di formazione a settimana.
Più o meno le stesse cose stanno accadendo nella maggior parte dei paesi con maggiori o minori riduzioni salariali in cambio della certezza (relativa) del posto di lavoro. E' l'applicazione pratica del ‘patto sociale' di cui ormai si parla sempre più spesso in Europa. L'indicazione della Ue, dell'Europarlamento, della Commissione europea è evitare un'ondata di licenziamenti con forme di flessibilità salariale e di orario, evitare i prepensionamenti per non aggravare i deficit pubblici già fuori misura, tenere il più possibile gli occupati legati al posto di lavoro con l'intervento delle casse pubbliche, rafforzare gli ammortizzatori sociali (fino a ieri tanto criticati e oggi considerati la valvola di salvezza europea).

A metà maggio in quattro città europee (Berlino, Bruxelles, Madrid e Praga) i sindacati organizzeranno manifestazioni per chiedere l'avvio di un "new deal" sociale. A una partnership "stretta" tra business e sindacati chiamano, sulla base di principi comuni, le organizzazioni dell'industria europea. L'obiettivo è pilotare una fase difficilissima con dieci milioni di disoccupati in più in Europa entro il 2010 (oggi sono poco meno di venti milioni), evitare si estendano a macchia d'olio i prodromi di quella che alcuni hanno già cominciato a chiamare "rivolta sociale" (dalla Lituania alla Francia).

L'attenzione non è solo per il breve termine, si guarda anche oltre. Per esempio viene dato per scontato che ad un certo punto, quando la ripresa economica prenderà piede, l'inflazione ricomincerà a salire su scala globale e la pressione sui salari si farà sentire. Negli anni dell'euforia finanziaria e immobiliare, di bassi tassi di interesse, in misura comunque inferiore a quanto accaduto negli Usa, le famiglie in Europa hanno beneficiato dell'effetto ricchezza non derivante dai redditi da lavoro. In futuro le basi per questo ‘effetto ricchezza' non ci saranno più per cui è presumibile riprenderà quota la contrattazione salariale. Sulla base di queste considerazioni i sindacati europei ipotizzano una ripresa degli iscritti dopo una lunga fase di declino. Nei 15 paesi Ue (prima dell'allargamento a Est) nel 1978 era iscritta a un sindacato oltre metà dei lavoratori dipendenti, dall'inizio degli anni '90 è cominciata una lenta
erosione che ha portato a metà di questo decennio un livello di iscrizione inferiore al 30% (solo in Italia e Francia gli iscritti ai sindacati sono rimasti sostanzialmente stabili).

Ci sono dunque tutti i presupposti perché il ‘patto sociale' di cui si parla oggi non duri, almeno nelle ambizioni, solo il tempo della recessione ma costituisca un volano di una ripresa che si auspica equilibrata (con inflazione sotto controllo e salari che tengano conto dell'andamento della produttività). D'altra parte, la maggior parte delle analisi sulle relazioni industriali indicano che in Europa un forte sistema di relazioni industriali istituzionalizzate "ha un effetto di moderazione sull'andamento dei salari nominali" (rapporto 2008 della Commissione Ue). Non solo: mentre la maggiore o minore centralizzazione della contrattazione non ha molta influenza molto sulla disuguaglianza salariale, quanto più i sindacati hanno consenso tanto più questa diminuisce. Un argomento questo della disuguaglianza salariale (e di reddito) che prima della crisi si era imposto con una certa forza nell'agenda dell'Eurogruppo.

(*) Antonio Pollio Salimbeni, esperto di economia internazionale, dal 2002 è corrispondente a Bruxelles per Il Sole 24 Ore Radiocor. Già inviato e corrispondente a Washington per l'Unità, ha vinto i premi giornalistici Saint Vincent 1997 e Lingotto 1999. Ha pubblicato "Il drago, Hong Kong, la Cina e l'Occidente alla vigilia del nuovo millennio" (con L.Tamburrino, Donzelli 1997), "Il grande mercato. Realtà e miti della globalizzazione" (Bruno Mondadori1999), "Lo sviluppo insostenibile" (con P.Greco, BrunoMondadori 2003).

 

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