Gino Bartali al passo del Pordoi (1950) - Olycom/Publifoto Milano - Copertina del libro "Mille diavoli in corpo" (edizioni Giunti) È una storia di sport e di vita, una bella storia tutta italiana quella di Gino Bartali. Un monumento del ciclismo, certo, capace di vincere – ancora unico nella storia – due Tour de France a distanza di dieci anni (1938-48), con una guerra mondiale di mezzo, in un periodo anche particolare per la giovane storia repubblicana del nostro Paese, che cercava con fatica di uscire da vent’anni disastrosi di dittatura e violenze. Bartali, vincitore di tre Giri d’Italia (1936,37,48), ha rappresentato anche un grande segno di riscatto per un’Italia umiliata e offesa, un vessillo degno di rispetto, una bandiera di uno sport leale e capace di imprese eroiche. Non un personaggio algido e lontano, però, ma un uomo appassionato sui pedali e nella vita, vissuta in pienezza fino all’età veneranda di 86 anni. Un carattere rude e deciso, quello del Bartali pubblico, ma anche generoso e docile nelle situazioni più intime e familiari. Il libro “Mille Diavoli in corpo” (edizioni Giunti), scritto da Paolo Alberati, ciclista-giornalista, tifoso di Ginettaccio (ma anche ammiratore di Fausto Coppi) ci svela, dietro la cronaca delle grandi azioni sportive di Bartali, numerosissimi risvolti inediti della vita privata e pubblica del campione toscano, documentati da molte testimonianze dirette (il figlio Andrea Bartali, i compagni di corse Alfredo Martini e Giovannino Corrieri) e da una splendida galleria di foto (le più cedute direttamente dall’archivio privato di casa Bartali, dalla moglie Adriana) che ripercorrono i passaggi più significativi della storia umana e ciclistica di un mito dello sport italiano. Adriana e Gino freschi sposi, a passeggio ad Alassio nella primavera del 1941 (Archivio famiglia Bartali)Nel libro, scritto in maniera semplice e colloquiale, troviamo il Bartali più noto – l’uomo dalla forza fisica immensa, capace di correre quasi 700mila chilometri in carriera; il campione tenace e battagliero, sempre pronto a scattare per mettere in difficoltà gli avversari; l’uomo profondamente religioso, pilastro dell’Azione Cattolica, amico di Alcide De Gasperi e addirittura di papa Pio XII – ma anche un Bartali meno noto, punto di snodo, negli anni della Guerra, della fitta rete di assistenza cattolica ai cittadini italiani di origine ebraica, destinati alla cattura e alla deportazione nei lager nazisti in Germania. Dalle testimonianze del figlio Andrea veniamo a conoscenza dei viaggi avventurosi di Ginettaccio, in pieno tempo di guerra, tra Firenze e Assisi: andata e ritorno in giornata, 380 chilometri percorsi tantissime volte per trasportare passaporti falsificati e documenti riservati utili a favorire l’espatrio di cittadini ebrei e dissidenti, rifugiati nei conventi italiani durante il periodo del controllo nazifascista sull’Italia. Bartali, grazie alle sua forza muscolare e alla sua notorietà che lo rende quasi insospettabile, è il “postino” di un’organizzazione clandestina che, con l’avallo del Papa in persona, del cardinale di Firenze, del vescovo di Assisi e di tantissimi istituti religiosi della cittadina di San Francesco, stampa documenti falsi per fornire una nuova identità ai perseguitati del regime. Dopo aver riempito la canna verticale della bicicletta con carte annonarie e passaporti falsi, e aver dato buca all’amico Alfredo Martini (allora ignaro di tutto) per l’allenamento mattutino, Gino si lanciava all’attacco con la sua bicicletta fiammante, pronto ad intere giornate sui pedali alla volta della città umbra. Al figlio, con il quale sarà sempre estremamente riservato su questi episodi (dei quali nulla sapeva nemmeno la moglie Adriana, ma che gli costarono anche tre giorni di carcere per i sospetti della polizia), Gino continuerà a ripetere, umile, per tutta la vita: «Io voglio essere ricordato per le mie imprese sportive e non come un eroe di guerra. Gli eroi sono altri. Quelli che hanno patito nelle membra, nelle menti, negli affetti. Io mi sono limitato a fare ciò che sapevo meglio fare. Andare in bicicletta».

Bartali e Coppi, compagni di squadra, impegnati nel 1940 in una cronometro su pista (Archivio famiglia Bartali)Il libro di Alberati ricostruisce, in parallelo, aspetti privati e noti della vita di Ginettaccio, storie di sport, del Bartali ciclista-fenomeno, a cominciare dalla prestanza fisica unica del campione toscano e dalla sua longevità agonistica (correrà fino a quarant’anni suonati) agevolata dai 34 battiti cardiaci a riposo e da una pressione arteriosa bassissima (120-35): negli anni delle corse professionistiche Bartali, scrive Alberati, beneficiò di un aumento di otto centimetri del volume toracico e lo stesso cuore si modificò e si irrobustì sempre più. Atleta rigorosissimo nella preparazione fisica, Bartali aveva una marcia in più nel fisico, capace di esaltarsi quanto più gli sforzi aumentavano, in qualsiasi situazione climatica. Martini ricorda come non recasse alcun problema al capitano della mitica Legnano correre sulle strade del Tour a 40 gradi sotto il sole o scalare le montagne in piena bufera. E poi c’è la rivalità storica con il Campionissimo, Fausto Coppi, un fenomeno che appassionerà l’Italia (nel dopoguerra il ciclismo era ancora il vero sport nazionale), che travalicherà l’aspetto agonistico per caricarsi di significati politici, culturali e di costume. Alberati e i suoi testimoni, prima di tutti Alfredo Martini, ribaltano il cliché di due nemici eternamente in lotta dentro e fuori dalle gare. Martini, anzi, ricorda come i due campioni si rispettassero, si temessero sui pedali, ma anche avessero un rapporto intenso fuori dalla pista, pur nella completa diversità di carattere (schivo e ombroso Coppi, scoppiettante e polemico Bartali). La frase che dà il titolo al libro è proprio di Fausto, e risale alla Milano-Sanremo del 1950: Bartali riesce a far sua la classica di primavera bruciando in volata i professionisti dello sprint, lui, il mago delle scalate impossibili.
Il famoso episodio della borraccia è risolto nel libro in favore di Bartali, ed è probabile che Alberati abbia visto giusto… Ma chi può davvero metterci la mano sul fuoco? In fondo, forse, è più bello restare nel dubbio, e rimanere a guardare ancora una volta questa foto in bianco e nero.. due campioni legati da una borraccia, necessari l’uno all’altro per alimentare il mito reciproco e la leggenda di un ciclismo che forse non tornerà più, ma che ha dato tanto all’Italia nel momento in cui più ce n’era bisogno.

Paolo Alberati
"Mille diavoli in corpo"
Edizioni Giunti, pagg. 189, €16,50

massimo.donaddio@ilsole24ore.com
 

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