Cinquant'anni fa – il 2 gennaio 1960 - Fausto Coppi moriva alle 8,45 all'ospedale di Tortona per una malaria perniciosa non diagnosticata dai medici. «Sarebbe bastato un tubetto di chinino», disse subito con rabbia Sandro Carrea, uno dei suoi più fedeli gregari. Sarebbe bastato, ma non sempre i medici seguono la via del buon senso. E così, nonostante gli allarmi dalla Francia di Raphael Geminiani, un altro corridore che con Coppi aveva contratto la malaria durante una partita di caccia nell'Alto Volta, i medici continuarono a curarlo come se avesse una comune influenza con antibiotici e cortisone. Una miscela devastante per il fisico del campionissimo che si spegne in pochi giorni tra lo sconcerto di parenti e amici.

Sembrava uno scherzo atroce. L'ultima beffa di un destino capriccioso. La notizia, diffusa subito dalla radio, piomba nei bar e nelle case con la violenza di uno sparo: «È morto Coppi! È morto Coppi!». Tutta l'Italia ammutolisce, anche quella "bartaliana", improvvisamente privata del suo grande avversario. E migliaia di persone si ritrovano sulla strada di Castellania ad accompagnarlo nell'ultima fuga. L'inviato della Rai, Nico Sapio, comincia così il suo servizio: «Mai vi era stata intorno a Fausto Coppi una folla tanto silenziosa… Fausto tornava a Castellania, il ciclo breve e glorioso della sua esistenza si chiudeva in una giornata di sole con un ritorno alla terra solo apparentemente dimenticata…».
Un vuoto immenso. Vengono da ogni parte al suo funerale perché ciascun italiano ha un pezzo di vita legato a quell'uomo dalla maglia biancoceleste. Coppi con il petto carenato. Coppi che batte Bartali. Coppi che si fa battere da Bartali. Coppi con le ossa di cristallo. Coppi che anche quando ride sembra che abbia gli spilli sulla bocca.

Ora, anche se sono passati solo 50 anni, è quasi impossibile spiegare a un giovane di oggi cosa sia stato Coppi per l'Italia di quel periodo. Intanto perché il ciclismo – Pantani a parte – non ha più avuto quella forza incantatrice dei primi anni del dopoguerra; poi perché Coppi, insieme a Bartali, è il simbolo di un paese che, con la bicicletta, si lascia alle spalle le macerie della guerra e della povertà. E Coppi, di quest'Italia povera ma in movimento, è l'eroe. Uno strano eroe che mette assieme forza e fragilità, memoria perenne e precarietà. Tra il 1940, quando conquista il primo Giro d'Italia, e il 1960 quando muore, Coppi vince in totale 123 corse, stabilendo anche nel 1942, tra gli allarmi della guerra, il record dell'ora al Vigorelli.

Già in questi numeri, e negli anni rubati dalla guerra che "sottraggono" e nello stesso tempo aggiungono forza al suo mito (chissà cosa avrebbe fatto se…), c'è tutta la cifra di questo straordinario campione che ancora oggi conserva una sorprendente forza attrattiva come racconta Mario Fossati, celebre inviato del "Giorno" e di "Repubblica" che di Coppi fu amico e narratore. «Sì, Fausto è stato un uomo speciale. È stato lui a far uscire il ciclismo dal medioevo, sottoponendosi ad allenamenti scientifici e mirati. In un certo senso, a questo sport, ha fatto prendere una strada pericolosa… Quella della velocità prolungata con tabelle sempre più rigorose. Coppi ha dovuto lottare con la povertà. È maturato alla scuola di un massaggiatore cieco e competente come Biagio Cavanna, un uomo che lo ha fatto crescere spartanamente, come un atleta adulto. Per me Fausto era un amico. Io e Rino Negri, un collega vecchio quanto me, eravamo ammessi al cortile di Cavanna, e sapevamo come Coppi cresceva. Poi c'è stato quel Giro del 1940, con il passaggio di consegne tra lui e Bartali. Però, va detto, Bartali non ha mai smesso di lottare. E per Coppi è diventato un incubo. Un incubo che molte volte lo ha mandato in corto circuito. Un incubo a cui, col tempo, si è però affezionato. Alla fine, benché la rivalità facesse comodo a tutti, i due erano diventati amici».

Coppi deve molto a Bartali. E Bartali deve molto a Coppi. Ma sono diversi in tutto e questo accresce la rivalità: chiacchierone uno, taciturno l'alto. Uno più vecchio e l'altro più giovane. Poi il modo di correre: tutto di forza, Bartali, grazie a un fisco straordinario che lo sorregge comunque. Tutto di leggerezza invece Coppi. Ma è una leggerezza apparente. Per quanto scarno, per quanto sgraziato fisicamente, Coppi è tutt'uno con la bicicletta. Il petto carenato che protegge un cuore superiore, le cosce potenti, l'eleganza della postura che lo rende più aereodinamico. «Quando fa il vuoto in salita - racconta Ettore Milano, l'altro fedele gregario - Fausto diventa irraggiungibile. Non scatta, ma accelera con una regolarità impressionante. Va via come se corresse una cronometro. In quel modo Fausto ha vinto anche la Sanremo del 1946. Partì in fuga già da Binasco, ma sul Turchino disseminò la concorrenza trasformando la bicicletta in una specie di proiettile. Arrivò a Sanremo con più di 14 minuti di vantaggio. Grande classe, certo, grandi polomoni, ma anche chilometri e chilometri di allenamento. Non lasciava nulla al caso. Temeva solo l'imprevisto, la caduta, qualche incidente. Ne ha avuti tanti, come se il destino ci pigliasse gusto a colpirlo. Perché lui nella ossa era fragile…».

C'è il Coppi corridore, ormai conosciuto. Ma c'è anche l'uomo, ancora oggi difficile da decifrare. Alfredo Martini, per 23 anni cittì della nazionale e suo gregario, lo descrive così: «Un uomo abbastanza riservato e di grande educazione. Ma quando voleva era anche molto spiritoso, soprattutto con chi aveva confidenza. In quei casi diventava anche simpatico. Come capitano, è stato grandissimo. Tutti i gregari gli volevano bene come a un fratello maggiore. Quello che guadagnava lo divideva. Questo era Coppi…».

Se Coppi non fosse fosse esistito, lo avrebbero inventato i giornalisti e gli scrittori della sua epoca. Coppi era una fabbrica di spunti, aneddoti, pezzi di colore. Tutti i grandi inviati dell'epoca si forgiarono nella palestra del ciclismo e delle imprese di Coppi. Indro Montanelli, Orio Vergani, Dino Buzzati, Alfonso Gatto, Bruno Roghi, Giorgio Fattori, Gianni Brera. Pagine leggendarie dove anche la retorica era giustificata perché le strade, dopo la guerra, erano veramente piene di polvere e molti italiani, che sentivano evocare dalla radio le maestose cime dell'Izoard e del Tourmalet, non erano mai andati in vacanza. Per loro, quei nomi, evocano luoghi d'avventura. E al pomeriggio, quando si collega la voce di Mario Ferretti, la gente si riunisce nei bar e nelle case. «Un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi…».

In questa Italia brulicante di speranze e di paure, Coppi si porta dietro la sua melanconia di uomo solo. Anche se c'è un po'di letteratura in questa affermazione, la vita di Coppi è scivolata sul rasoio della malasorte. Il padre e due sorelle morti di cancro, il fratello Serse, cui era legatissimo, scomparso per una banale caduta. Poi gli incidenti: le ossa fratturate, la carriera interrotta dalla guerra. Anche la sua vita privata fu saccheggiata per la storia d'amore con Giulia Occhini: il processo per bigamia, la separazione dalla figlia Marina rimasta con la moglie Bruna, la nascita di Faustino, in Argentina, per evitare alla sua nuova compagna altre grane con la legge. Quando la Dama Bianca entra nella sua vita, scrive Gianni Brera in "Coppi e il Diavolo" l'Italia bigotta e moralista lo aspetta al varco. «Con Giulia, Fausto si senti compiutamente felice. Dopo l'incontro di Milano combinarono una breve fuga a Saint Moriz dove passarono giorni indimenticabili. Fausto era stato molto volte ubriaco di chilometri, mai d'amore. Finalmente provò anche questa sbornia, e non mancò di sentirsene esaltato. Era una cotte stordente ma deliziosa per una donna di condizione sociale nettemente superiore alla sua di paesano schietto. L'italia nella quale Fausto ha osato accogliere Giulia Occhini Locatelli è ancora quella di Wilma Montesi, un paese ancora insopportabilmente codino e ippocrita, ignorante e mammista fino alla nausea...».

Gli ultimi anni di Coppi prendono una piega tumultuosa. Giulia è una donna esigente che lo obbliga a un tenore di vita cui non è abituato. La grande villa alle porte di Novi ligure, i viaggi, la servitù. Poi è molto possessiva. Gli rimprovera le sue lunghe assenze, e che a quasi 40 anni non si decida ad abbandonare il ciclismo. Fausto patisce quella pressione costante. E forse, per non staccare con il suo mondo, continua a correre nonostante gli acciacchi e il malcontento dei tifosi stanchi del suo declino. Alla fine, poco prima del viaggio in Africa, firma per la squadra di Bartali, con un ruolo di capitano e leader carismatico. Ma in fondo, e Coppi lo sa, il suo è solo un rinvio. Ma è il destino, alla fine, a decidere per lui. Un destino che non gli è mai stato amico.
«Fausto vinse sempre senza mai sorridere, quasi non credesse mai totalmente in se stesso», scrive Orio Vergani sul Corriere della Sera il giorno dopo la sua morte. «Sembrava sempre sovrappensiero: come stranamente e fissamente in ascolto di una qualche voce interna che gli andasse mormorando dentro una incomprensibile parola. Quella parola segreta non era "fortuna". La guigne, vecchia parola delle antiche corse su strada ha rotto il filo della sua vita fragilissima, come un piccolo soffio di vento spezza il filo di ragno coperta di brina, là, sulle siepi invernali del suo paese di campagna».

 

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