Il rapporto tra caschetto protettivo e ciclismo professionistico è più complicato di quanto si possa pensare. L'impiego obbligatorio del caschetto tra i professionisti è infatti molto recente, malgrado le grandi corse a tappe abbiano ormai più di un secolo di vita e i tributi alla velocità, in termini di morti in gara, siano stati già pesanti. Sono stati infatti proprio gli incidenti mortali a costringere il ciclismo professionistico a un profonda e difficile riflessione su se stesso e ad adeguarsi a quella che oggi è per tutti una doverosa pratica di tutela della sicurezza degli atleti che sfrecciano in discesa anche a 70 chilometri all'ora.

Soltanto dal 2006, infatti, il casco protettivo è un obbligo per i corridori professionisti. Come mai questo ritardo? Proviamo a procedere per gradi. Per tutto il tempo del ciclismo eroico il caschetto fu assolutamente facoltativo, anzi, furono veramente pochissimi a indossarlo. Tra questi Fausto Coppi fece come sempre da pioniere, avendo avuto a che fare con numerose cadute in carriera, ma soprattutto essendo stato fortemente segnato dall'incidente mortale occorso al fratello Serse, che cadde durante uno sprint al Giro del Piemonte e fu colpito da emorragia cerebrale.

L'unica vera eccezione nel nulla delle regole di allora fu quella del francese Jean Robic, detto "testa di vetro", proprio per la sua abitudine - allora considerata una cosa buffa - di portare sempre il casco. Naturalmente il caschetto che indossava Robic era molto diverso da quello che intendiamo oggi ed era costituito da una struttura composta da strisce di cuoio rinforzato disposte parallelamente sulla testa. Questo modello di paratesta resistette fino agli anni Ottanta, ma anche il comparire dei primi caschi rigidi non trovò il favore di corridori e amatori: erano troppo pesanti e non permettevano nessuna aerazione, dando a chi li indossava una sensazione di caldo insopportabile.

Le eccezioni - ma siamo in un ambito un po' differente - sono quelle dei campioni della pista, che hanno sempre fanno della velocità e della corsa contro il tempo la loro caratteristica fondamentale. Caschetto inseparabile per Antonio Maspes, il mito del Velodromo Vigorelli di Milano, sette ori mondiali tra gli anni '50 e '60. Francesco Moser utilizzò invece un casco aerodinamico per battere il record dell'ora di Eddy Merckx nel 1984. Il casco faceva parte dell'attrezzatura innovativa inaugurata dal campione trentino per entrare nella storia della velocità. Accanto a nuovi metodi di allenamento e di alimentazione, Moser utilizzava anche una speciale tuta e una bicicletta ideata in galleria del vento e dotata di ruote lenticolari.

Gli anni passano, i caschetti migliorano, diventano più leggeri, più rigidi e sicuri, con una maggiore aerazione. Eppure le resistenze nel mondo dei professionisti continuano ad essere molte. Il caschetto fa sudare, viene considerato scomodo, e anche i ciclisti che lo usano lo tolgono in salita (tutti ricordano gli incidenti di Pantani, ma anche il suo gesto di buttare in terra tutto ciò che aveva in testa - dal caschetto alla bandana - prima di alzarsi sui pedali e attaccare una salita impegnativa). È l'incidente avvenuto il 18 luglio 1995 al Tour de France, quando l'italiano Fabio Casartelli muore in seguito a una caduta in cui batte violentemente la testa contro un paracarro in cemento, a dare una svolta al dibattito sul caschetto di protezione per i ciclisti. Al momento della caduta, Casartelli non indossa nessun tipo di caschetto e la sua morte, oltre a provocare forte commozione nel mondo del ciclismo professionistico, dà il via a una seria discussione sull'introduzione di norme per rendere obbligatorio l'utilizzo del casco. Ma il ciclismo professionistico, tra tentennamenti e rimandi, ha ancora bisogno di un'ennesima tragedia, la morte di Andrei Kivilev nel 2003 alla Parigi-Nizza, per cambiare marcia e aggiornare le sue regole.

Il caschetto diventa obbligatorio anche se fino al 2005 i professionisti possono comunque toglierselo durante i tapponi in salita e prima degli scatti conclusivi di una gara. Dal 2006 l'obbligo di indossare il casco è permanente: non ci sono più attentuanti o deroghe. Un cammino lunghissimo, quindi, che oggi è però una conquista irrinunciabile. Basti pensare che un corridore come Damiano Cunego, uno dei leader del movimento ciclistico italiano, usa scrupolosamente il caschetto protettivo anche in allenamento.

 

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