E venne il giorno dell'«Avatar» di James Cameron, uno di quei giorni in cui senti che qualcosa di importante sta succedendo attorno a te, magari non ne afferri neanche il senso fino in fondo ma, per quello che puoi, intendi parteciparvi. In giorni come questi pensi alla rivoluzione che incombe sull'arte cinematografica a venire, al massimo a come potrà mai essere il web 3.0 o la vita 4.0, al ruolo che vi svolgeranno questi benedetti avatar del futuro, roba troppo seria per essere liquidata alla stregua di un videogame per ragazzini.
Di sicuro non hai il tempo di pensare al fatto che, se c'è un'arte che frequenta e indaga (in maniera più o meno consapevole) il concetto di avatar da almeno quarant'anni, questa è la musica. E se c'è un genere musicale più di tutti sensibile al tema, questo è il rock. Proprio il rock che, lungo il tortuoso corso della sua storia, si è più volte rivelato sublime arte del trasformismo: numerosi gli artisti che, giunti all'apice della fama, hanno scelto di rischiare con progetti musicali paralleli che presupponessero sempre un altro nome, spesso un altro suono, talvolta un altro volto. Tante le rockstar che hanno cambiato identità, creato un avatar e affidato lui un disco o il palcoscenico per cercare nuovi stimoli e re-inventare sé stessi.
Obbligatorio partire dal disco più celebrato del gruppo più celebre di tutti i tempi: nel 1967 con «Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band» i Beatles provarono a reincarnarsi in una brass band, una di quelle orchestrine di piazza tanto popolari nel Regno Unito ai primi del Novecento. Il progetto originario (poi parzialmente accantonato) prevedeva addirittura che ciascuno dei Fab Four, oltre ai caratteristici baffetti vittoriani, acquisisse nome e cognome diverso. Sarà un caso che, giusto in quel periodo, i Beatles avvicinandosi agli insegnamenti del Maharishi cominciavano a familiarizzare con Krishna, avatar del dio Vishnu?
Lasciamo però da parte i culti del subcontinente indiano e avviciniamoci a suggestioni New Age, fino a veder sorgere in piena età del glam (è il 1972) l'astro di Ziggy Stardust, giovinetto dalle fattezze efebiche che grazie a misteriosi aiuti alieni (sic!) diventa una rockstar interplanetaria. Altri non è che l'avatar di David Bowie, uno abituato a «fare l'amore con il suo ego» concependo ripetutamente reinvenzioni di sé stesso, per la gioia di noialtri ascoltatori. Del resto cambiare faccia è superbo costume glam, come dimostra l'esperienza dei Kiss: dove sarebbero mai arrivati Gene Simmons e Paul Stanley senza trasformarsi, rispettivamente, nel Demone e nel Figlio delle Stelle dalla faccia truccata?
La pratica di crearsi un avatar musicale cade in disuso per larga parte degli anni Ottanta, per tornare alla ribalta con prepotenza nel 1988 con l'avvento dei Traveling Wilburys. Mostri sacri del rock come George Harrion, Bob Dylan, Roy Orbison, Jeff Lynne e Tom Petty, per scherzare con i fan, si trasformano in una fantomatica band di fratellastri americani, dallo stile molto southern. L'esperimento ha successo e viene replicato persino a casa nostra da Edoardo Bennato, pronto a vestire i panni di Joe Sarnataro, e i vari Zucchero, Maurizio Vandelli e Dodi Battaglia che non perdono l'occasione di trasformasi in Adelmo e i suoi Sorapis.
A volte può succedere che ci si reincarna in un nuovo progetto musicale per sfuggire a contratti discografici insoddisfacenti (vedi la curiosa vicenda di Prince nonché Love Symbol, nonché Victor, nonché T.A.F.K.A.P.), altre per fare qualcosa di nuovo con un vecchio amico (come per Paul McCartney e Youth in The Fireman), altre ancora per cimentarsi con curiosi esperimenti di fusione tra le arti. Quest'ultimo è il caso dei Gorillaz, progetto di band cartoon condiviso dal leader del Blur Damon Albarn e dal fumettista Jamie Hewlett. Forse il punto di più alta consapevolezza delle potenzialità di un avatar rock, per l'appunto coinciso con l'era del web e della computer graphics. Di più estremo riusciamo soltanto a immaginare un ragazzino che, con una specie di chitarra di plastica collegata alla console di casa, suona alla Wembley Arena tutte le volte che vuole. Ma non è esattamente la stessa cosa.

 

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