Sono due romanzi, «Accanto alla tigre di Lorenzo Pavolini» (Fandango) e «Canale Mussolini» di Antonio Pennacchi (Mondadori)? Il primo è un percorso individuale, l'interrogazione di un quarantacinquenne sulla figura centrale nella storia della sua famiglia, il nonno Alessandro che fu intellettuale di punta e poi ministro della Cultura popolare al tempo del fascismo, e che seguì Mussolini nell'avventura della Repubblica di Salò, finendo come lui ammazzato dai partigiani nell'aprile del 1945. Il secondo (probabilmente candidato allo Strega) è la ricostruzione di una storia corale, di famiglia e di massa, dentro la storia del fascismo: l'esodo di migliaia di contadini dal Veneto e dalla Bassa padana "trasferiti" dal regime a popolare le terre bonificate e bonificande delle Paludi Pontine, nel Lazio meridionale.

Il primo è piuttosto un memoir, che confronta passato e presente, nonno e nipote, non per un impossibile dialogo attraverso il tempo ma per un'interrogazione sul presente, su ciò che resta del passato e su ciò che invece ne è radicalmente separato e diverso. Comincia così: «Non sapevo che mio nonno fosse un gerarca fascista fucilato a Dongo e appeso a testa in giù a piazzale Loreto, fino a quando non mi sono imbattuto in una fotografia sul libro di storia della seconda media...», ed è il confronto con un nonno che, quando è morto, era più giovane del nipote che lo racconta. Ma la rievocazione e la «storia di famiglia» sono inestricabilmente intrecciate alla descrizione del presente, in un luogo preciso che è la Roma dell'Esquilino in cui convivono, intorno a piazza Vittorio, gruppi numerosi di immigrati da varie parti del pianeta e la famosa Casa Pound sede di neofascisti che intendono ridar forza a una cultura fascista ripensata sull'oggi. In un fitto dialogo con gli echi del passato e le novità del presente, con la famiglia e gli amici, con i documenti e i ricordi, e soprattutto con una propria personale necessità di chiarezza, Pavolini s'interroga sul romanzo e sulla storia, ma lo fa a partire da una necessità, da una domanda che non è soltanto sua.

Quanto del fascismo ci tiriamo dietro, nel l'Italia di oggi, nonostante i mille sommovimenti che sono intercorsi tra il 1945 e il 2010? Quanto degli «usi e costumi» della dittatura è rimasto nella nostra antropologia e nella nostra democrazia, nel l'Italia in cui stiamo vivendo, così confusa, arrogante, abulica, ignava, amorale? Cosa possono ancora significare per Lorenzo le idee e i riti del passato, visto che esse gli vengono ricordate da molte, persino da troppe cose? Cosa ha significato per il nonno «cavalcare la tigre»; la sua tigre, ma anche la tigre della Storia? Come è possibile parlarne, per un nipote che non ha mai avuto occasione di cavalcarne una, ma che può trovarsela ancora vicina, inquietante e rischiosa?

Se non mancano certo i libri – memorie saggi romanzi – in cui sono state le vittime del fascismo a parlare, e se nella cultura ufficiale quelli scritti dall'altra parte (qualche volta non meno dolorosi) sono stati censurati o trascurati, un libro come questo è anche espressione del necessario rifiuto, a distanza di tanti anni, di non rimuovere ancora un problema che, di tutta evidenza, non riguarda solo il suo autore. Per fortuna tanti anni sono passati anche se certe ferite hanno tardato e tardano a rimarginare del tutto, perché di «guerra civile» si è trattato, come anche i più conservatori e i più ideologici degli storici della sinistra sono stati obbligati a riconoscere, e Lorenzo Pavolini non fatica a mantenere le giuste distanze, a ragionare sulla sua famiglia con la sincerità e l'onestà di uno venuto dopo (dispiace semmai che dedichi poco spazio alle reazioni degli altri membri della famiglia, e alle loro scelte post-fasciste, che portarono alcuni ad assumere ruoli importanti nel Partito comunista e altri al silenzio politico, ma senza preservarli da un'umana inquietudine dagli esiti amari; penso a Francesco Savio, pseudonimo di Pavolini, grande studioso di cinema e in particolare del cinema del ventennio).

«L'incubo di mio padre», figlio di Alessandro, «era sentirsi chiamare dal padre in un autobus affollato e non riuscire a raggiungerlo». Lorenzo non ha questo tipo di incubi, ma vuole capire, la figura del nonno è in agguato anche nei suoi incubi. Perché alcuni amici del nonno, per esempio Bilenchi, sono passati dal fascismo all'antifascismo già al tempo della guerra di Spagna, mentre Alessandro si è accanito inaspettatamente nella fedeltà al fascismo e al suo duce, fino a diventare famoso nell'immaginario collettivo del dopoguerra come «l'ultima raffica di Salò»? Come si diventa ciò che si diventa? Che peso ha il carattere nelle scelte politiche? Ragionare sul fascismo è anche ragionare sul carattere nazionale? Le domande si infittiscono, nella testa del lettore, e non sempre hanno risposte razionali e coerenti, perché è questo, in definitiva, il labirinto in cui il paese si aggira, la sua non-chiarezza di oggi e di sempre sul proprio passato e sulle proprie colpe o vergogne. Accanto alla tigre ci permette di accostarci a molti dilemmi con un misto un po' paradossale di serenità e di inquietudine, da un lodevole grado di distanza o vicinanza. Da «accanto alla tigre», per l'appunto.

Canale Mussolini di Antonio Pennacchi ha un altro registro e una diversa ambizione: è la ricostruzione di una storia di famiglia e collettiva, sotto il pretesto dell'intervista orale a un vecchio, vecchissimo parroco pontino della famiglia Peruzzi, contadini delle parti di Rovigo e fascisti convinti, passati con Mussolini dal socialismo al fascismo anzi allo squadrismo (e alcuni responsabili dell'omicidio di un prete antifascista, sul modello di don Minzoni). Ma contadini, comunque, e costretti dal bisogno ad accettare di lasciare il Nord per il Centro, che era per loro un Sud, e la grande pianura aperta all'Adriatico per la modesta pianura malsana e malarica ai margini del Tirreno, dove il regime ha progettato e avviato, nel suo sforzo di modernizzazione, un'impresa di bonifica comparabile, nel piccolo, a quelle sovietiche o americane (come la Tva). Pennacchi si è molto documentato, non solo raccogliendo memorie famigliari e d'altri nuclei ma interrogando documenti e frequentando storici.

Cresciuto in ambiente "nostalgico" e fascista, ha aderito transitoriamente al fascismo e poi al comunismo, deluso in qualche modo da entrambi, ed è ossessivamente segnato nei precedenti lavori come in questo da una appartenenza, geografica e culturale anzitutto, ma anche politica. Egli ha costruito il suo romanzo – ché di romanzo si tratta, anzi di romanzo storico e che aspira all'epica – tra rielaborazione di memorie e invenzione, però sempre a partire dai documenti, dai ricordi, dal reale; il paragone che andrebbe fatto è forse con Il mulino del Po di Bacchelli, e forse ancor più del film che ne trasse Lattuada che non dello stesso fluviale romanzo. L'impresa era enorme e in sostanza è riuscita, con il prima dell'esodo e l'esodo, con l'insediamento e le nuove contraddizioni, per esempio il conflitto con gli abitanti della montagna, i "vecchi" del posto, che sostituiscono i conflitti precedenti tra contadini e agrari e tra socialisti e fascisti, con la costruzione dal nulla delle città e di Littoria (Latina) in particolare, e poi con la guerra e il dopoguerra, e con l'arrivo degli americani e del Ddt che sconfigge definitivamente la malaria e introduce a una nuova storia, tuttavia segnata dalle origini. In questo quadro molto mosso, che lascia poco spazio al singolo personaggio e alle sue psicologie ma che rifiuta giustamente le suggestioni del realismo magico alla Garcìa Màrquez e l'epica pubblicitaria, assumono un peso particolare le figure delle donne, chiave di volta d'ogni costruzione. Se qua e là l'epica si sfibra e i personaggi diventano silhouettes, è allora la Storia a sorreggere il romanzo, a dargli il suo interesse e il suo peso.

(È una curiosa epoca questa, in cui un fascismo di tipo nuovo affascina gli italiani, ma in cui lo sforzo di capire chi siamo e da dove veniamo senza subire i ricatti delle ideologie è forse più grande di quanto non sia mai stato. Tra le ultime uscite, mi pare fondamentale in questo senso, con il manuale di Guido Crainz sull'Autobiografia di una repubblica, Donzelli, il bel saggio dello storico Leonardo Paggi edito dal Mulino su Il "popolo dei morti" e la memoria degli anni 1940-1946. E per capire la "zona grigia" degli stessi anni, può tornare utile anche la raccolta dei sorprendenti albi a fumetti di Jacovitti proposta da Stampa Alternativa con il titolo molto jacovittiano di Eja eja baccalà: elaborazioni in presa diretta e "lezioni di storia" e di sfiducia nella storia – per i ragazzi di allora – sugli umori della "zona grigia" che possono essere, oggi, molto istruttive).

Lorenzo Pavolini, «Accanto alla tigre», Fandango, Roma, pagg. 244, € 16,50;
Antonio Pennacchi, «Canale Mussolini», Mondadori, Milano, pagg. 460, € 20,00.

 

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