È il classico «nemo propheta in patria » o c'è dell'altro?
Avevo letto sul «Tirreno» dei mal di pancia che il mio romanzo sta provocando in città, ma non mi aspettavo una reazione così violenta. Sono dispiaciuta perché è la dimostrazione che parlare della realtà è impossibile. C'è come una volontà di rimozione dei problemi legati al mondo del lavoro. Vince la vergogna. I deboli e i perdenti vanno nascosti, non i raccontati...
Perché?
Si è imposto un mito mediatico, il modello patinato del «tutti felici e vincenti»...Il dolore non è "fico". Ho scritto un libro in cui cerco di raccontare la verità dolorosa dei luoghi in cui sono cresciuta. E ho toccato un punto debole della città, che si ritrova in tante realtà italiane.
Quale?
L 'identità fragile di una classe operaia che culturalmente non esiste più ma, di fatto, lavora e soffre ogni giorno nelle fabbriche.
Sul «Riformista», Caterina Soffici parla di molti attacchi "di sinistra", che vengono da rappresentanti sindacali e politici degli operai...
È il piccolo mondo borghese che ruota intorno alla fabbrica. Per anni si è sentito interprete e portavoce di una cultura molto forte in Italia, ma in questo momento è in profonda crisi e si ribella alla realtà. Il punto è che manca del tutto in Italia – dalla politica ai giornali – una rappresentazione del mondo del lavoro, soprattutto di quello nelle fabbriche.
Laddove è assente la politica interviene la letteratura?
Attraverso le parole cerchiamo di restituire anche una dignità estetica ai lavoratori e alle loro vite. Non è detto che ci riusciamo...
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