L'euforia, come previsto, non è durata e la spinta del piano salva-euro da 750 miliardi di euro si è esaurita ieri nelle borse e nei mercati valutari, riportando il segno negativo nei listini azionari mondiali e sulla moneta europea.
Non è la risposta degli speculatori alla sfida lanciata dall'Europa e dal Fondo monetario, ma lo specchio di più profondi timori della comunità finanziaria internazionale. Se da una parte l'Europa ha dato dimostrazione di unità davanti al pericolo di disgregazione dell'eurozona, dall'altra ha lasciato irrisolte due questioni cruciali: come evitare il rischio di una crescente indisciplina dei conti pubblici da parte dei paesi radicalmente più deboli (il cosiddetto «moral hazard»); come coniugare l'impegno all'austerità assunto dai paesi membri con l'esigenza di crescita economica e di ripresa industriale che, di fatto, è la base della sopravvivenza stessa dell'Europa. Non è un caso se, ancora ieri, il Fondo monetario ha messo in guardia l'Europa, e soprattutto l'Italia, dai rischi crescenti di ripresa lenta e senza occupazione.
Sul primo fronte, il nodo è strutturale: in assenza di meccanismi sanzionatori e di vigilanza, la responsabilità fiscale nell'eurozona, che avrebbe dovuto essere garantita dal Patto di stabilità e dall'impegno dei governi a mantenere i deficit di bilancio al 3% del Pil e il debito pubblico al 60%, è rimasta un impegno buono solo sulla carta. Il problema, in questo senso, è tutto sulle spalle della Bce, che dopo aver gestito con successo le crisi finanziarie e creditizie del 2007 e del 2008, si trova ora del tutto spiazzata in questo frangente.
La risposta dei governi europei alla crisi greca e all'attacco speculativo sui titoli di stato ha spostato infatti la crisi nella ben più complessa sfera dei conti pubblici, dove la Bce non ha potere se non quello di ricordare continuamente ai governi che l'austerità è un loro dovere primario.

L'Europa è ormai consapevole di questo limite, e proprio oggi il commissario europeo all'economia, Olli Rehn, dovrebbe proporre una serie di nuove regole, con chiari meccanismi di enforcement, sia per prevenire una crescita eccessiva del debito pubblico e dei deficit, sia per rispondere con prontezza all'insorgere di eventuali nuove crisi debitorie.
Detto questo, resta il secondo nodo di fondo: come coniugare il rigore con la necessità di crescita di un'economia europea la cui performance è tornata ai livelli degli anni 90. Il problema è ancora più sentito per l'Italia, le cui prospettive di crescita sono decisamente inferiori a quelle dei partner europei.
Già prima dello scoppio della crisi finanziaria e bancaria del 2007 e del 2008 era cominciato in Italia un ciclo congiunturale negativo. La crisi bancaria ne ha amplificato a dismisura gli effetti sul settore produttivo per gli ovvii motivi di restrizione del credito. Sul fronte mondiale siamo legati alla concertazione con gli altri stati, il che significa che ben poco si può fare. Ecco perchè già cresce la preoccupazione in vista del taglio intorno ai 25 miliardi che il ministro Giulio Tremonti dovrà fare e che ha già praticamente annunciato per giugno-luglio. E allora le imprese sono preoccupate: lo squillo di tromba sulla crescita della produzione industriale significa ben poco, poiché dovremmo invece parlare di un -20,9% di produzione industriale rispetto al punto più alto dell'attuale crisi. Dovremmo partire da qui per interrogarci su quanti anni ci vorranno per tornare ai livelli del 2007. E sulle misure che urgono per non aggravare una situazione che nei prossimi mesi è destinata ad appesantirsi di suo: con la disoccupazione in crescita (8,8%), quanto terranno i consumi interni? E quanto terrà la domanda estera, visto che i terremoti finanziari in atto addensano un clima di paura e sicuramente non incoraggiano la spesa privata in Italia e all'estero. Considerazioni analoghe possono essere fatte sul fronte del credito interno in seguito ai contraccolpi delle vicende internazionali: il riemergere delle tensioni sul mercato interbancario europeo hanno risvegliato i timori di un ulteriore pericolo di credit crunch, che andrebbe nel caso a sommarsi alle strozzature già esistenti. È un dato di fatto che si sta allungando pericolosamente la catena dei ritardi nei pagamenti, soprattutto dello Stato e proseguendo poi per tutta la catena, dal grande al piccolo imprenditore.
L'austerità è un dovere in tempi difficili, ma non meno importante è evitare che i contraccolpi della crisi si riflettano sui consumi. Ecco perchè sono ancora necessari i finanziamenti per la cassa integrazione. Occorre anche pensare al precariato, inevitabilmente destinato a pagare il prezzo più alto. È vero che il tessuto sociale per ora tiene, ma occorre agire per evitare che la diffusa preoccupazione degeneri in sfiducia o peggio. E qui la responsabilità passa ai partiti di governo e anche di opposizione.
Occorrono anche le misure attive di sostegno, non riservate soltanto ai settori considerati tradizionalmente di traino che ora lo sono senz'altro di meno. Non basta l'edilizia a far riaccendere i motori, vedi i tempi storici delle nostre opere pubbliche e le remore ambientali. E poi l'attuale società non è quella di vent'anni fa, il tessuto produttivo è ricco e differenziato. Per di più l'ex terziario cosiddetto avanzato è ora diventato pervasivo e simbiotico con l'apparato produttivo. Ci sono settori nuovi, in cui siamo poco presenti. Quale sarà il nostro ruolo nella divisione internazionale del lavoro nel dopo crisi?
Una volta si propongono incentivi, un'altra si promettono riforme fiscali, poi opere pubbliche... A breve, però, si concretizza soltanto il pericolo di tagli pesanti per salvare la nostra posizione nell'euro. Abbiamo in Europa evitato una Caporetto, ma siamo attestati sul Piave. Rischiamo di rimanere in trincea lì se non si riesce a far ripartire l'economia reale.
alessandro.plateroti@ilsole24ore.com

 

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