Per Robert Reich, l'ex ministro del Lavoro di Bill Clinton e ora professore in una Berkeley che ha ridotto anche il suo stipendio, la Casa Bianca di Obama è ormai al centro di una manovra a tenaglia dei mad-as-hellers. Sono gli "incavolati come non so che cosa", di destra e di sinistra, una componente estendibile fino al 15-20% dell'elettorato potenziale, che sta ripercorrendo le strade classiche del populismo americano, conservatore e progressista.
Dal fatto se questo ariete bifronte verrà domato o no, dipendono probabilmente le fortune della presidenza Obama. Che ha sottovalutato la necessità di disinnescare la mina populista posta fin dall'inizio dalla Grande Recessione sotto il suo tappeto presidenziale.

Per Nolan McCarty, professore alla Woodrow Wilson School di Princeton, New Jersey, esperto di classi sociali e redditi, nella tradizione americana «oltre a rappresentare la gente comune, il populismo è generalmente associato con il sospetto delle istituzioni. C'è quindi un populismo di sinistra che non si fida del business e un populismo di destra che non si fida del governo. In un momento in cui sia le istituzioni dell'economia privata sia quelle pubbliche sembrano avere fallito - conclude McCarty – il populismo è la forza che mette insieme destra e sinistra».
Gli europei danno al termine populismo un significato solo deteriore, in genere, come una forza che ragiona con la pancia e i risentimenti e non con la testa e il cuore e un pizzico di lungimiranza, e che si oppone alle élite in modo irrazionale.

Negli Stati Uniti, il paese della dignità del common man e del sospetto sistematico del potere, la situazione è un poco diversa. C'è un giudizio negativo all'europea, ma c'è anche l'accettazione del populismo come una componente costante e positiva della società, al servizio delle ragioni della "piccola gente".

Questo dipende, oltre che dalla cultura politica americana, dal ruolo importante che il movimento populista, non sempre illuminato ma certamente combattivo, ebbe nell'ultimo decennio dell'800, come partito degli agricoltori e dei lavoratori contro i grandi trust economici, e poi ancora come partito progressista nei primi anni 20, tutte tradizioni confluite in qualche modo, confuso ma concreto, nel New Deal. Ed è dagli anni del New Deal che il populismo ha assunto chiaramente la sua natura bifronte.
In risposta alla crescita della mano pubblica (quando Roosevelt entrò alla Casa Bianca i bilanci pubblici spendevano appena il 12% del Pil, meno di un terzo di quanto spendono oggi) il populismo di destra lanciava la sua crociata contro il big government ripresa più tardi da Ronald Reagan e ora dal movimento dei Tea Party.
Con Tea Party, un termine classico che risale alla protesta fiscale antinglese nell'era coloniale, si indica qualsiasi incontro, assembramento, mozione, dichiarazione, marcia contro le tasse, l'eccesso di spesa pubblica e di presenza governativa. Nato negli anni 90 dal fronte reaganiano sconfitto da Bill Clinton, il movimento ha ripreso molto slancio con l'esplosione del bilancio federale dopo il settembre 2008.

Dimenticando che il peggior presidente quanto a spesa pubblica è stato il repubblicano George W. Bush, i Tea Party, sostanzialmente formati da elettori repubblicani, accusano Obama e il Congresso democratico di stravolgere le regole e di utilizzare la crisi per un'insensata espansione dello stato. Dimenticando ancora che la maggior parte delle misure anti-crisi che hanno gonfiato la spesa erano già state impostate dal governo Bush.
Speculare è il populismo di sinistra, o meglio dell'ala progressista del partito democratico, esteso in parte al robusto nerbo dell'elettorato indipendente, che è circa un terzo del totale. Il brodo di cultura l'ha offerto nel corso degli ultimi 30 anni la crescente delusione a fronte di redditi che, per gran parte del ceto medio, sono aumentati solo nominalmente e diminuiti o stabili quanto a potere d'acquisto, a fronte di una grossa concentrazione delle risorse nel 10% più alto della scala reddituale.

Ma a fare esplodere il tutto è stata la risposta alla crisi data dal governo Obama, e la sensazione che la Casa Bianca sia più vicina ai desiderata di Wall Street che a quelli della gente comune.
Un grafico di Nomi Prins aiuta a capire . La Prins è una ex manager di Goldman Sachs passata al giornalismo d'assalto e cura il miglior sito su quanto speso e come contro la crisi. All'ultimo aggiornamento del 12 gennaio, la cifra impegnata contro la crisi era di oltre 13mila miliardi di dollari, a vario titolo e solo in parte minore a fondo perduto.
A fronte degli 11.500 miliardi «per Wall Street», finanza e affini in sostanza, più quanto dato al comparto auto, vi sono "appena" 1.800 miliardi «per il cittadino americano», sommando il piano di stimolo da 787 miliardi, aiuti al settore immobiliare e altro.

La Casa Bianca e il presidente in persona giustificavano un anno fa l'aiuto alle banche come un aiuto indiretto al cittadino, perché le banche avrebbero sostenuto la ripresa. Finora si è vista poco, e pochissimo sul fronte dell'occupazione. E da qui la marea del populismo montante.
L'ultimo sondaggio Cbs-New York Times dice che solo il 19% degli americani si fida del governo, mentre il 78% lo ritiene in mano a pochi interessi precisi e non preoccupato del bene generale. Da Wall Street si sono fatte sentire voci che hanno accusato di populismo varie proposte di riforma. Ma è difficile dare del populista a Paul Volcker, autore delle proposte più incisive per controllare dimensioni e rischi delle banche.
La mancanza di una chiara lettura ufficiale della crisi da parte del presidente e dei suoi uomini, di cause responsabilità e rimedi, ha contribuito al senso di disagio e alla protesta.
Toni analoghi usava domenica 7 marzo Frank Rich, commentatore di spicco del New York Times. «Poiché Obama non offre una descrizione complessiva di che cosa una riforma finanziaria potrebbe voler dire nella vita quotidiana degli americani, questi comprensibilmente ritengono che le riforme sarebbero troppo annacquate o marginali per incidere su un sistema che lascia i loro redditi stagnanti (quando va bene) mentre i banchieri salvati tornano a festeggiare come nel 2007».

Anche sui costi, sopportati alla fine dal contribuente, Obama ha parlato poco. Le famiglie hanno perso circa 15mila miliardi su un patrimonio complessivo di 60mila (valore degli immobili, piani pensione e risparmi) secondo l'economista James K. Galbraith.
E il costo totale, che si può misurare nell'aumento abnorme del debito pubblico, sarà, se le proiezioni ultime del Congressional Budget Office sono giuste, pari a circa il 35-40% del Pil. Non c'è da meravigliarsi se, fra chi vorrebbe capire e non ci riesce, la fiducia nelle élite vacilla.

 

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