I nodi arrivano al pettine e gli interrogativi crescono. Riguardano in primo luogo le incognite intorno al federalismo, ora che sta per essere approvato il decreto attuativo del cosiddetto «federalismo demaniale». In secondo luogo toccano i dettagli della manovra economica-finanziaria cui lavora Tremonti: abbiamo i primi segnali di uno scontro all'interno stesso della maggioranza (ad esempio, il ministro Fazio parla di tagli alla sanità e Formigoni insorge a nome della Lombardia).

L'intreccio tra federalismo e manovra non era certo voluto, ma il caso ha deciso così: la crisi greca ha scompaginato le scadenze politiche. Il che spiega le ansie di Bossi. Il capo della Lega torna a ripetere la parola d'ordine («il federalismo non costa, anzi fa risparmiare»), ma sembra quasi voler convincere se stesso. In realtà Bossi ha capito che questo è il momento meno adatto per attuare, sia pure in forma graduale, una riforma così radicale e ambiziosa. Una riforma forse necessaria per imporre comportamenti virtuosi alle regioni sprecone, ma i cui effetti saranno visibili solo a lungo, lunghissimo termine; mentre oggi il rischio è un aumento delle tensioni politiche e probabilmente delle spese transitorie.

Di sicuro l'Italia si sta avviando verso un'esperienza che non ha precedenti. Da un lato, si vuole trasformare uno Stato centralista in uno Stato semi-federale, cominciando da una norma controversa sul demanio. Dall'altro, si intende farlo in un momento drammatico, quando c'è da rastrellare, in nome dell'Europa, una somma che si avvicina ai trenta miliardi di euro. È un salto mortale addirittura temerario e non è un caso che Fini, sulle orme di Napolitano, torni a citare la «coesione nazionale» come bene prioritario da difendere a ogni costo.

In ogni caso la Lega non può rinunciare, è ovvio, al suo cavallo di battaglia. La bandiera federalista è la sua ragion d'essere e non può essere ammainata dall'oggi al domani, anche se Bossi nutre parecchi timori e di sicuro la gravità della crisi finanziaria imporrà di modulare al meglio le tappe destinate a scandire l'attuazione del nuovo modello. Questa è una delle ragioni che spiegano lo stretto rapporto tra Bossi e Tremonti. Il ministro dell'Economia è l'unico, agli occhi leghisti, in grado di far quadrare il cerchio. Ossia di rendere compatibile una certa porzione di federalismo con la tutela dei conti pubblici.

E qui s'intuisce lo scambio politico: la Lega offre tutto il suo apporto alla manovra correttiva e alla linea del rigore; a sua volta Tremonti aiuta Bossi e Calderoli in questo passaggio cruciale della prospettiva federalista. A suggellare il patto ci sono gli accenti comuni, del ministro e dei responsabili leghisti, circa i tagli agli stipendi dei parlamentari. Una premessa o un «aperitivo» che dovrebbe servire a creare un clima propizio nell'opinione pubblica.

Basterà? Al momento non lo sa nessuno. Si cammina sul filo del rasoio perché le cifre sono imponenti. Se l'obiettivo è realmente «ridurre la mano pubblica», cioè la grande spesa statale e para-statale, si capisce che Tremonti ha nella Lega il migliore alleato. Anche rispetto alle resistenze che ci saranno senza dubbio nel Pdl, mentre è ancora in ombra la posizione del Pd (a sua volta scavalcato da Di Pietro, assai lesto nel presentare la sua contro-manovra). Il pericolo è il corto circuito. Cioè l'impossibilità di governare le contraddizioni politiche che la crisi dell'euro ha fatto esplodere.

 

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