Sono reduce da una serie di incontri a Londra dove ho potuto toccare con mano le nubi che si addensano sulla tenuta del sistema euro. I mercati finanziari non ci daranno altro tempo. La palla del bowling rotola già sulla pista. Tocca a noi: o sapremo correggere le inefficienze delle nostre economie o i paesi dell'Eurozona cadranno come birilli.
Il welfare europeo ha bisogno di austerity, è stato detto. Questo è indubbio. E la cura dimagrante dovrà coinvolgere necessariamente le pubbliche amministrazioni e le pensioni. Ma non è un bene che davanti agli occhi dei capi di governo ci sia solo questa realtà.

«Guarda con le orecchie», diceva Re Lear al conte di Gloucester. Era un invito a cambiare prospettiva per vedere nel mondo anche le cose nascoste, un'esortazione ad andare «oltre a ciò che appare a tutti».
Seguiamo quel consiglio e vediamo che nella crisi del modello europeo non c'è solo un'austerity da dover adottare, c'è anche, se non soprattutto, una crescita da dover rilanciare e alimentare. La sopravvivenza dell'euro passerà anche da qui.

Se la Cina corre di nuovo al 10% e il Brasile al 5%, se gli Stati Uniti sono tornati a superare il 3% e la Russia sfiora il 4%, non possiamo pensare di mantenere la centralità dell'Europa - e della sua moneta - con tassi di crescita poco sopra l'1%. E ricordiamo che la crescita è anche rigore: perché il deficit che conta è in rapporto al Pil, e ogni punto di crescita in più riduce quel rapporto proporzionalmente.

Se non si parte da qui, ogni risposta dei paesi europei rischia di essere inefficace. E questo porterebbe a conseguenze davvero gravi, perché oggi l'Europa non ha più prove d'appello. «L'euro è in pericolo», ha detto ieri Angela Merkel. La pressione dei mercati finanziari è più della sirena antincendio, è il fuoco che sta già divorando il tappeto di casa. E chiamarla speculazione non ci esime dagli interventi necessari a mettere l'Europa sul giusto binario.

Rigore e crescita, dunque. Per l'Europa e tanto più per l'Italia. Il Sole 24 Ore ha probabilmente fatto bene a dare la palma di uomo dell'economia per il 2009 al ministro Tremonti. Se siamo in piedi - malmessi ma in piedi - lo si deve anche alla sua "resistenza" di fronte alle pressioni irresponsabili di alcuni suoi colleghi di governo. Ma stare fermi non basta. E solo il ministero dell'Economia, un concentrato di potere su cui prima o poi bisognerà pur fare una riflessione, ha in sé le leve potenti del disegno che serve. Leve fiscali, che devono promuovere crescita, da una parte, e garantire rigore, dall'altra. E devono farlo subito, senza rinviare a un confronto triennale che sembra tanto un pretesto per non fare.

Va attuata senza indugi una massiccia riduzione delle imposte che gravano sul lavoro e sulle imprese. L'Italia ha il record europeo delle aliquote e, soprattutto, di quel cuneo fiscale che significa buste paga pesanti per le imprese e leggere per i lavoratori. È una zavorra che frena le nostre aziende nella loro capacità di competere e penalizza tutti gli italiani, riducendone la capacità d'acquisto e di fatto impoverendoli. Serve una riduzione di questi oneri fiscali nell'ordine di diversi punti percentuali, per far fare un salto di competitività alle nostre imprese, per rilanciare i consumi interni (fattore determinante di crescita di fronte a mercati internazionali sempre più saturi), per ribaltare le aspettative e il clima di fiducia.
Una misura draconiana, come quella che ho descritto, andrebbe evidentemente bilanciata dal lato delle entrate e delle minori uscite. E siccome il debito è quello che è, su questo fronte vanno anche recuperate risorse aggiuntive utili al risanamento.

In linea diretta, il taglio delle imposte sulla produzione può finanziarsi, per una parte consistente, con uno spostamento della tassazione verso la manifestazione più diretta della ricchezza e del reddito: i beni patrimoniali e i consumi. Tremonti parla dal '94 di spostamento del fisco «dalle persone alle cose». Credo di capire che intenda qualcosa che assomiglia a quel che sostengo io. È al governo, il governo del fare, allora faccia. Se lavora senza indugi in questa direzione avrà, per quel che vale, il mio appoggio.

Poi, sul fronte del rigore, c'è la lotta all'evasione fiscale. Tutti ne parlano come un mantra recitato a beneficio degli allocchi. Ma nessuno la fa davvero. Eppure basterebbe un provvedimento semplice-semplice: l'obbligo di allegare alla propria dichiarazione dei redditi l'estratto conto bancario. In questo modo non scapperebbe più niente, perché saremmo tutti chiamati a dare conto di ogni movimento. Me ne parlava - quanti anni sono passati - l'amico Bruno Visentini, che aggiungeva con pessimismo: «Ma le lobby interessate al segreto bancario non lo permetteranno mai».

Mi chiedo: possiamo mandare in malora un paese perché la politica è tanto debole da non saper affrontare quelle lobby? So bene che c'è un pezzo d'Italia che vive di sommerso, ma vogliamo che la nostra sia un'economia fondata sul lavoro o sulle frodi fiscali? Forse è il momento di scegliere. Anche perché altrimenti saranno i mercati internazionali a fare la loro scelta, condannando l'Italia alla marginalità. La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia sta conducendo una giusta battaglia per affermare il principio che la legalità è un elemento essenziale della competitività. È così. E la fedeltà fiscale ne è una parte importante.

Infine la spesa pubblica. Tagliare si può. Le imprese private, in questi due anni di crisi, hanno mediamente ridotto i costi di un buon 20%. Lo stato non è un'azienda e la sua spesa è fatta per una quota molto ampia di stipendi. Ma si può risparmiare molto centralizzando davvero gli acquisti, razionalizzando le tante società partecipate dalle amministrazioni locali, abolendo enti intermedi, tagliando le spese clientelari. E riformando il welfare.

Non condivido l'opinione che l'Europa debba uscire dalla crisi rinunciando al suo modello di stato sociale. Deve, questo sì, vigorosamente aggiornarlo. Smettendola, innanzitutto, di mandare in pensione le sue donne e i suoi uomini con più esperienza per il solo fatto di essere alla soglia dei sessant'anni.

Quando nasceva il welfare di cui l'Europa è giustamente orgogliosa, le aspettative di vita erano inferiori alle attuali di dieci anni. Perciò oggi alzare l'età del pensionamento di molti anni, anche in modo repentino, non significa abdicare al modello europeo di stato sociale, significa rinnovarlo permettendone la sopravvivenza nei prossimi decenni.

Anche qui: la politica, italiana ed europea, dimostri di saper affermare l'interesse generale senza subire i veti dei gruppi di interesse contrari alle riforme. La pressione dei mercati non ci dà più tempo. Bisogna agire con determinazione. E l'Italia deve farlo prima e meglio degli altri, perché restiamo un sorvegliato speciale.

Come paese abbiamo sempre dimostrato di saper reagire nei momenti di grave difficoltà. Mostriamo all'Europa come si fa non solo a difendere l'euro, ma a salvare, nel rinnovamento, quel modello di economia e di società che tanto ha dato alla storia dell'umanità.

 

Shopping24