L'articolo di Marco Fortis sulla misura della performance economica italiana dimostra che, anche in campo statistico, il tempo è galantuomo. Dopo anni di critiche, piovute da più parti all'Istat per aver "sottostimato" l'inflazione in seguito all'introduzione dell'euro, Fortis – sul Sole 24 Ore del 19 maggio – avanza il dubbio che in realtà ci sia stata una "sovrastima" dell'aumento dei prezzi interni (cioè del deflatore del Pil). Ciò avrebbe reso la crescita reale dell'Italia più debole rispetto a Francia e Germania. Fortis nota poi che l'andamento a prezzi correnti del valore aggiunto dell'Italia è simile a quello della Francia e più forte rispetto alla Germania, mentre in termini reali (al netto dell'aumento dei prezzi) la crescita italiana è più contenuta. Infine, denuncia alcune "stranezze" nei deflatori tedesco e francese, per concludere che si dovrebbe indagare meglio come gli istituti di statistica di quei paesi effettuano le loro stime.

Proprio ieri mi sono fatto promotore presso l'Eurostat di un'iniziativa volta ad analizzare meglio le differenze segnalate, così da fugare ogni dubbio in proposito. Ma vorrei richiamare l'attenzione sul fatto che è sempre più difficile distinguere tra variazioni di "quantità" e di "prezzo" in un mondo in rapida trasformazione, con un forte ricambio dei beni e servizi offerti sul mercato e con continue modifiche della qualità dei prodotti.

Proprio per questo, l'Istat dedica particolare attenzione alla misurazione dell'andamento dei prezzi e al loro uso nella contabilità nazionale. Di conseguenza, vengono rilevate mensilmente 565mila quotazioni di oltre 1.200 prodotti destinati al consumo delle famiglie, 16mila per i prezzi praticati dalle imprese industriali sul mercato interno ed estero, oltre 1,2 milioni di transazioni commerciali con l'estero effettuate da 150mila operatori per calcolare gli indici dei valori medi unitari delle esportazioni e delle importazioni di 10mila prodotti, nonché indicatori specifici per settori quali le costruzioni o l'agricoltura.

Ciononostante, se confrontiamo la disponibilità di dati tra i paesi europei, possiamo notare che l'Italia non dispone, se non per alcuni comparti, di indici dei prezzi alla produzione (transazioni business-to-business) delle imprese di servizi, né di quelli delle importazioni di beni. In ambedue i casi l'Istat ha avviato le attività necessarie per colmare le lacune (ricordo che le risorse dedicate alla statistica italiana sono la metà di quelle a disposizione dei colleghi francesi).

Non riteniamo però che la disponibilità di questi dati cambierebbe in modo rilevante l'evoluzione del Pil. Ad esempio, attualmente si effettua la deflazione delle esportazioni e delle importazioni in valore usando gli indici dei valori medi unitari, ma simulazioni condotte per misurare l'impatto dell'eventuale utilizzo di indici dei prezzi per ambedue i flussi mostrano che, mentre si modificherebbero in misura significativa le dinamiche di import-export in termini reali, l'effetto sul tasso annuale di crescita del Pil sarebbe minimo (uno o due decimi all'anno).

Quanto alle metodologie utilizzate per la stima del valore aggiunto in termini reali, in tutti i paesi considerati si effettua, per gran parte dei settori, la deflazione degli aggregati a prezzi correnti e non si usano, se non per alcuni settori, indici di quantità. In particolare, analogamente alla prassi seguita in Francia e Germania, l'Istat: a) adotta lo schema contabile Supply-Use per la valutazione degli aggregati a prezzi correnti e per quella ai prezzi dell'anno precedente, con un dettaglio a 101 prodotti della classificazione Cpa e 101 branche di attività economica della classificazione Nace Rev.1.1; b) stima il Pil in termini reali attraverso la deflazione delle varie componenti della domanda (consumi, investimenti, esportazioni e importazioni) e il bilanciamento della tavola dei consumi intermedi ai prezzi d'acquisto, attraverso cui viene stimato il valore aggiunto per ciascuna branca.

Allo stato dell'arte non possiamo dunque assegnare un'elevata probabilità all'ipotesi che ci siano "significativi" errori nei dati o differenze metodologiche che possano spiegare statisticamente la più contenuta performance dell'Italia rispetto agli altri paesi. In ogni caso, l'Istat sta lavorando per rivedere, nel 2011, i conti nazionali, mentre nel 2014 tutti i paesi europei adotteranno il nuovo Sistema di contabilità nazionale definito dalle Nazioni Unite e quindi rivedranno ulteriormente le serie oggi disponibili.

L'Istat fornisce inoltre una straordinaria massa d'informazioni (comparabili a livello europeo) per analizzare lo stato del sistema economico italiano. Ad esempio, prendendo a riferimento i dati a prezzi correnti, il livello della produttività del lavoro cresce fortemente al crescere della dimensione delle imprese. Quindi, il livello della produttività complessiva del "sistema Italia", dove è presente un gran numero di micro e piccole imprese, che pesano molto in termini di prodotto e occupazione, è influenzato da questo "effetto dimensionale", che produce anche una compressione della dinamica del prodotto per addetto.

La più bassa produttività si accompagna, però, con un costo del lavoro più basso, cosicché la redditività lorda delle imprese italiane appare, in tutti i segmenti dimensionali a eccezione delle microimprese, in linea o superiore a quella degli altri paesi. Inoltre, negli anni 2001-2007 la produttività nominale del lavoro delle imprese industriali italiane è aumentata meno di quella degli altri grandi paesi europei. Questo risultato dipende da una dinamica meno positiva per le (tante) micro e, in misura inferiore, per le (poche) grandi imprese, non compensata dal buon risultato delle piccole e medie.

Infine, va notato che l'Italia ha sofferto soprattutto negli anni 2001-2005, mentre nel biennio 2006-2007 le imprese italiane hanno conseguito risultati significativi, in generale superiori a quelli rilevati per la Francia e analoghi a quelli dell'area euro, con l'eccezione della Germania, la cui manifattura ha messo a segno una crescita impressionante, che supera qualsiasi obiezione relativa ai deflatori. Ma la crisi del biennio 2008-2009 ha interrotto questa tendenza e ha colpito le imprese italiane più di quelle degli altri paesi europei, cosicché il confronto sul periodo 2001-2009 sintetizza fasi molto diverse e risultati settoriali molto eterogenei.

Come si vede, il quadro informativo offerto dalle statistiche economiche appare notevolmente articolato. Il Rapporto annuale che l'Istat presenterà mercoledì 26 maggio permetterà di valutare in modo ancor più dettagliato gli elementi strutturali e congiunturali dello sviluppo italiano degli ultimi dieci anni. Sono convinto che Fortis e gli altri analisti troveranno nuovi spunti per proseguire un dibattito così importante per il futuro del paese.

Enrico Giovannini è il presidente dell'Istat

 

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