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Questo articolo è stato pubblicato il 25 maggio 2010 alle ore 10:51.
L'ultima modifica è del 25 maggio 2010 alle ore 08:59.
José Mourinho è arrivato in Italia con la forza di un ciclone e se ne va con altrettanto fragore. Nella prima conferenza stampa aveva sorpreso tutti con il mirabolante, milanesissimo, «non sono un pirla». La sera del trionfo nella Champions League che la sua squadra, l'Inter, attendeva da 45 anni, l'attenzione dei media è stata monopolizzata dal suo annuncio di voler lasciare l'Italia per andare ad allenare il Real Madrid, squadra blasonatissima e dal budget illimitato, ma da tempo senza successi.
Mou lascia l'Italia e ci lascia una lunga scia di interrogativi. Perché è così difficile per un non allineato lavorare in Italia? Perché un uomo di grande personalità e spessore, di enormi capacità professionali, stenta a fare breccia nel sistema? Forse, azzardiamo a dare un risposta, perché la sindrome dell'immobilismo è più forte di quello che pensiamo. Tutto quello che disturba l'ordine costituito finisce per essere un pericolo. L'ammirazione diventa subito fastidio. Il fastidio problema. È proprio vero: in Italia non è per niente facile aprire il sistema.