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Questo articolo è stato pubblicato il 28 maggio 2010 alle ore 08:34.
L'ultima modifica è del 28 maggio 2010 alle ore 08:34.
Forse qualcuno trova consolante che la crisi, assieme al Pil, abbia abbattuto le emissioni di gas serra. La Commissione europea, sulle ali di questa illusione, ha per un po' accarezzato il progetto di alzare dal 20 al 30% l'obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra. Le buone intenzioni si sono sfasciate contro il muro della realtà: per la prima volta, quasi tutti i governi nazionali e le organizzazioni industriali europee si sono trovati d'accordo nel rigettare tale prospettiva. In un durissimo documento interno, la Confindustria tedesca ha scritto: «
La minore crescita economica non dovrebbe essere celebrata come uno strumento per la protezione del clima». Infatti, la recessione ha fatto crollare la produzione industriale e, con essa, le emissioni. Indubbiamente questo rende più vicino il 20 e dunque il 30%, ma non necessariamente il consolidamento della crisi rappresenta un'opzione politica utile o razionale.
Il calo delle emissioni nel 2009 va visto come un fatto puntuale. Non è un'inversione di tendenza, è un salto verso il basso. In parte è puramente congiunturale, in parte è strutturale: nella misura in cui è strutturale, lo è perché alcune aziende, che hanno chiuso i battenti, non li riapriranno più. Bizzarramente, pochi a Bruxelles sembrano essersi resi conto che questo è un male non solo per le ovvie conseguenze sociali, ma anche perché la crisi e le difficoltà di accesso al credito riducono la capacità di investimento e la forza innovative delle imprese.
La scelta tra il 20 e il 30% nasconde dunque qualcosa d'altro. Da un lato vi è chi considera l'ambiente una variabile indipendente, e dunque la riduzione delle emissioni buona in sé. Dall'altro sta chi, più pragmaticamente, trova che la sostenibilità dipenda da un ampio numero di variabili. L'attuale modello di crescita può essere insostenibile dal punto di vista ecologico – o magari no – ma di certo non è ammazzando la crescita che si aiuta l'ambiente. Questa dialettica, fisiologica sul piano intellettuale, è purtroppo resa patologica dall'inefficace governance comunitaria dell'energia.
La questione non è tanto la ripartizione dei poteri tra Bruxelles e gli stati membri, quanto l'esistenza di una direzione generale per il clima separata e indipendente da quella per l'energia. Resta così inevasa la questione su quale debba essere il futuro economico dell'Unione: le due direzioni finiscono per avere stakeholder diversi, che si parlano poco, e offrono risposte diverse agli stessi problemi. Spingere verso il 30% – come vuole la Direzione Clima – significa sacrificare l'industria manifatturiera e le produzioni energivore. Restare ancorati al 20%, o meglio mitigarlo, come chiedono le Direzioni Energia e Industria, offre una speranza di sopravvivenza.