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La sfida di Netanyahu e l'inevitabile risposta di Obama

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Questo articolo è stato pubblicato il 02 giugno 2010 alle ore 09:19.

Quanto occorso l'altra notte nel mare fra Cipro e Israele non è che l'ennesimo episodio di un copione ormai fin troppo ripetuto. Né si tratta soltanto di un copione militare: quello per cui l'esercito israeliano - per decenni, elemento fondamentale sia del mito sia dell'immagine che Israele ha e proietta di sé - appare sempre più incapace di riuscire all'altezza del compito. Si tratta anche di un copione giuridico: quello per cui lo Stato ebraico tende ormai sistematicamente a violare i princìpi più elementari del diritto internazionale.


Nell'attacco alla flottiglia filo-palestinese, Israele ha violato il diritto internazionale due volte. Lo ha violato perché ha abbordato le navi in acque internazionali, e lo ha violato perché ha fatto ricorso a un uso sproporzionato della forza. Certo, i pacifisti (in parte autentici, in parte sedicenti) della Freedom Flotilla hanno essi stessi fatto uso di strumenti d'offesa. Ma manca qualunque proporzione fra la manciata di armi improprie sequestrate ai volontari delle Ong e l'arsenale di armi da guerra concretamente impiegato dai commando di Tsahal.
La denuncia contro Israele per un uso sproporzionato della forza non è una formula diplomatica, ritornata come per inerzia nelle critiche di numerose cancellerie: il rispetto di un uso proporzionato della forza è un asse portante del diritto internazionale umanitario, cioè quella parte del diritto internazionale che regola lo svolgimento dei conflitti armati. Il principio della proporzionalità obbliga le parti in conflitto a misurare a priori il rapporto fra l'asserita necessità di un'operazione militare e i possibili effetti di essa sul piano umanitario. Se un'operazione è suscettibile di causare la morte o il ferimento di numerosi civili, allora tale operazione va scartata in quanto militarmente eccessiva, e dunque illegale.
Negli ultimi anni, in tutte (o quasi tutte) le operazioni militari in cui è rimasto coinvolto, Israele ha violato il principio di un uso proporzionato della forza. Dunque, ha violato la legalità internazionale. Ma in questi anni Israele non è mai stato chiamato a rispondere davanti alla comunità internazionale di tali ripetute violazioni: per il buon motivo che l'unica superpotenza planetaria - gli Stati Uniti - erano a loro volta retti da un governo, l'amministrazione Bush, che la legalità internazionale tendeva ad infrangere. Oggi, si può sperare che Israele trovi oltre Atlantico un giudice altrimenti severo.

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Tags Correlati: Barack Obama | Bush | Giustizia | Medio Oriente | Netanyahu | Ong | Pubblica Amministrazione | Stati Uniti d'America

 

In effetti, l'amministrazione Obama va facendo della concertazione multilaterale - quindi, logicamente, del rispetto della legalità internazionale - la chiave di volta di un auspicato quanto difficile nuovo ordine mondiale. Il bagno di sangue compiuto da Israele con l'azione militare di lunedì scorso potrebbe (e dovrebbe) spingere gli Stati Uniti a vincolare ogni futura solidarietà politica con lo Stato ebraico al requisito giuridico minimo di un'osservanza del diritto.
Beninteso, nessuna violazione di tale diritto potrà mai spezzare il legame di ferro tra gli Stati Uniti e Israele. Ma che Obama sia intenzionato a fare sul serio, sfidando Netanyahu in quel provocatorio gioco al rialzo che sembra oggi divenuta la politica estera dello Stato ebraico, è stato recentemente dimostrato da un voto della Conferenza sul trattato di non proliferazione nucleare, dove gli Stati Uniti hanno rinunciato a bloccare un documento ostile a Israele.
Il disastro diplomatico provocato dall'azione militare di Tsahal sui rapporti fra Israele e Turchia (i due maggiori alleati degli Usa in Medioriente) non avrà certo per risultato di ammorbidire l'atteggiamento del governo Obama verso il governo Netanyahu. Al contrario, potrà rafforzare le voci di quanti, fra gli ebrei americani vicini all'amministrazione democratica, si stanno impegnando per spezzare il nodo gordiano che mantiene legata la politica estera statunitense agli ambienti più integralisti della diaspora d'oltreoceano.
È peraltro da chiedersi se un'inedita pressione americana avrebbe mai qualche effetto - oltreché sul governo di Tel Aviv - su un'opinione pubblica israeliana che sempre più appare vittima di una vertigine autodistruttiva. In realtà, neppure la presenza a Washington di un presidente internazionalmente credibile come Barack Obama permette di guardare con ottimismo al panorama di rovine che si leva ormai non più soltanto dalla terra di Gaza, ma dal mare di Israele.
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