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Commenti e Inchieste

La deflazione dietro l'angolo

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Questo articolo è stato pubblicato il 09 giugno 2010 alle ore 08:31.
L'ultima modifica è del 09 giugno 2010 alle ore 08:05.

Sta emergendo l'idea che le autorità dovrebbero chiudere drasticamente i rubinetti della spesa in quei paesi con un forte disavanzo. Ma che cosa rende questi politici tanto sicuri che imprese e consumatori torneranno a spendere di fronte a misure di austerity? E che succede se bloccando gli stimoli si aprono le porte alla recessione, o addirittura alla deflazione?


Nel comunicato diffuso al termine della riunione dei ministri dell'Economia e dei governatori delle Banche centrali del G20, la scorsa settimana, si dichiarava che «quei paesi che hanno gravi problemi di bilancio devono accelerare il ritmo del risanamento». Eppure l'economia mondiale deve affrontare non uno, ma due rischi: il primo è che gran parte del mondo sviluppato possa finire come la Grecia; il secondo è che possa finire come il Giappone.
Come ha sottolineato in un recente discorso Adam Posen, membro esterno del comitato per la politica monetaria della Banca d'Inghilterra, la contrazione della spesa pubblica, abbinata ai persistenti problemi del settore bancario e a una politica monetaria non sufficientemente espansiva, nel 1997 diede origine allo shock negativo che portò e radicò in Giappone la deflazione. Secondo molti storici economici, gli Usa nel 1937 fecero un errore analogo.


Mi chiedo come giudicherà il mondo domani quello che viene messo in cantiere oggi? La dedizione della Germania al rafforzamento dell'austerità di bilancio in tutta l'eurozona è forte quanto scontata. Stando al discorso di lunedì del primo ministro inglese, il Regno Unito è avviato sulla stessa strada. Gli Usa per fortuna non si sono (ancora) uniti al coro.
Il Giappone è prigioniero della deflazione. L'inflazione inerziale in Germania, secondo il dato più recente, è di appena lo 0,3 per cento. Negli Usa, è allo 0,9 per cento. Un altro scossone potrebbe spingere queste economie in territorio deflattivo, con tutte le difficoltà che ne conseguono di condurre una politica monetaria efficace in un contesto di deleveraging post-bolla.
In un contesto simile, che effetti produrrebbe un taglio drastico degli stimoli di bilancio? In assenza di compensazioni efficaci sul piano della politica monetaria, probabilmente la domanda complessiva si ridurrebbe, forse in modo marcato. Alcuni economisti credono nell'"equivalenza di Ricardo", cioè l'idea che la spesa privata compensi automaticamente la riduzione della spesa pubblica. Ma come afferma Posen riguardo al Giappone, «non c'è nessun segnale evidente di forti compensazioni ricardiane alla politica di bilancio». Nei paesi industrializzati, oggi, il disavanzo di bilancio è sicuramente una conseguenza della riduzione della spesa privata a seguito della crisi, non il contrario.

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Tutto questo va benissimo, risponderanno molti, ma che dire dei rischi di un tracollo alla greca? Un anno fa, sostenevo sulle pagine del Financial Times (3 giugno 2009) che la rapida ascesa dei tassi d'interesse a lungo termine negli Usa era semplicemente un ritorno alla normalità dopo il panico. Gli sviluppi successivi hanno avvalorato questa tesi.
I tassi dei titoli di Stato decennali americani sono appena al 3,2%, contro il 3,9% di un anno fa, in Germania sono al 2,6, in Francia al 3 e perfino nel Regno Unito non vanno oltre il 3,4. I tassi tedeschi sono adesso al livello in cui erano in Giappone all'inizio del '97, durante la lunga discesa che li ha portati dal 7,9% del 1990 al poco più dell'1% odierno. E il rischio di default? Secondo i mercati, è prossimo allo zero: i tassi d'interesse sui titoli di stato indicizzati in Francia, Germania, Gran Bretagna e Usa sono intorno all'1 per cento. E lo spread fra i bond convenzionali e quelli indicizzati che segnali manda in termini d'inflazione attesa? Fortunatamente è ancora bassa, intorno al 2% negli Usa, in Germania e in Francia. In Gran Bretagna, è leggermente più alta.


Il dubbio è se questa fiducia reggerà. A naso (qui non c'è certezza) direi che gli Usa hanno più probabilità di poter continuare a prendere denaro in prestito a lungo, come il Giappone, che di venire buttati fuori dai mercati, come la Grecia, con la Gran Bretagna a metà strada fra questi due scenari.
In quanto debitori, America e Inghilterra hanno dei vantaggi: il primo è che le eccedenze del settore privato coprono rispettivamente circa il 75 e il 90% del deficit di bilancio; il secondo è che molti investitori privati necessitano di attività che bilancino le passività nella loro valuta nazionale; il terzo è che avendo questi paesi Banche centrali attive, i detentori dei titoli di stato non corrono rischi seri di liquidità; il quarto è che possono contare su tassi di cambio fluttuanti, che assorbono in parte i contraccolpi dei mutamenti della fiducia; il quinto è che possono scegliere autonomamente le misure da applicare, e questo offre prospettive ragionevoli di crescita economica sul breve termine; il sesto e ultimo è che gli Usa dispongono della riserva di asset più credibile che ci sia. Tutto questo garantisce al governo Usa, nei confronti del resto del mondo, la stessa posizione di cui gode il governo giapponese nei confronti dei risparmiatori giapponesi.


Secondo i critici, queste argomentazioni sottovalutano i rischi di una "frenata brusca" dei mercati finanziari. Ma i rischi ci sono da entrambe le parti. Quando il Giappone (o il Canada, o la Svezia) avviò il risanamento negli anni 90, l'economia mondiale, in forte sviluppo, poteva assorbire l'eccesso di domanda interna. Non esiste un'economia mondiale grande abbastanza da compensare una nuova contrazione della domanda in Europa e negli Usa. Un risanamento concertato dei bilanci pubblici nelle circostanze attuali potrebbe fallire: disavanzi ciclici più consistenti, con l'economia che s'indebolisce, potrebbero compensare i tentativi di risanamento strutturale delle finanze pubbliche. Per i paesi dell'Europa meridionale questo rappresenta già un pericolo. Gran parte del pianeta potrebbe finire per ritrovarsi in una posizione beggar-my-neighbour(quelle politiche che tendono a scaricare su altri Paesi i costi della crisi) nei confronti di un'America con le casse pubbliche sempre più sotto pressione.


Il G20 ha sottolineato la necessità che «i nostri paesi mettano in campo misure credibili, capaci di favorire la crescita e garantire la sostenibilità dei bilanci, e che siano differenziate e calibrate sulla base delle circostanze nazionali». Sembra giusto. A questo proposito, le autorità devono riconoscere che anche la deflazione rappresenta un rischio e che se si dà una stretta alla spesa pubblica servono compensazioni efficaci sul fronte della politica monetaria e oggi, soprattutto nella zona euro, potrebbe non essere facile garantire tali compensazioni.
Un risanamento prematuro dei conti pubblici, insegna l'esperienza, è un pericolo altrettanto grosso di un risanamento troppo tardivo. Qui non ci sono certezze. L'economia mondiale (o almeno quella dei paesi avanzati) rimane preoccupantemente fragile. Solo chi crede che l'economia sia un dramma morale, dove chi ha peccato deve andare incontro al castigo, potrà apprezzare un simile, disastroso risultato.


(Traduzione di Fabio Galimberti)

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