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Stato padrone non trionferà

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Questo articolo è stato pubblicato il 10 giugno 2010 alle ore 08:22.
L'ultima modifica è del 10 giugno 2010 alle ore 08:04.

Non è mai prudente annunciare la fine di qualcosa in un titolo di un libro. Ne sanno qualcosa Daniel Bell e Francis Fukuyama, autori di The End of Ideology (1960) e di The End of History (1992), pubblicati poco prima che sia le ideologie sia la storia tornassero rumorosamente a farsi sentire.

Anche Jeremy Rifkin con The End of Work (1995), Naomi Wolf con The End of America (2007) e Sam Harris con The End of Faith (2005) non hanno avuto gran fortuna. Il saggio di Rifkin sulla fine del lavoro uscì alla vigilia della mega creazione di posti di lavoro nell'America di Clinton e nel mondo globalizzato, l'America di Wolf è ancora viva e vegeta, addirittura rigenerata dal vento di cambiamento e di speranza provocato dall'elezione di Barack Obama, mentre la religione continua a essere l'ingrediente decisivo della nostra società.
La saggistica catastrofista agli editori però piace molto e probabilmente anche al pubblico dei lettori, spesso attratto dalle teorie millenariste. L'ultima funesta previsione riguarda il mercato: The End of Free Market, la fine del libero mercato. È il nuovo libro di Ian Bremmer, studioso quarantunenne e presidente dell'Eurasia Group di New York.


Il titolo del saggio in realtà è fuorviante, perché Bremmer non solo auspica la tenuta del libero mercato rispetto al capitalismo di stato, ma è anche convinto che alla lunga la libera impresa prevarrà sul modello statalista che oggi sembra inarrestabile. All'apocalittico titolo, insomma, non crede neppure l'autore. Il libro però è interessante perché affronta senza indugi il tema della nuova guerra culturale di questa epoca: quella tra la libertà d'impresa e il controllo governativo dell'economia. Tema, peraltro, di un altro nuovissimo saggio appena pubblicato negli Stati Uniti e scritto da Arthur Brooks, presidente dell'American Enterprise Institute di Washington. Il titolo, in questo caso, è meno perentorio: The Battle: How the Fight Between Free Enterprise and Big Government Will Shape America's Future, (La battaglia: come lo scontro tra libera impresa e statalismo influenzerà il futuro dell'America).


La straordinaria crescita del settore pubblico rispetto al mercato è innegabile, anche in paesi che fanno della netta separazione tra stato e impresa privata il fondamento della convivenza civile. La crisi finanziaria e la recessione globale hanno reso molto difficile la difesa dei principi puri del capitalismo e anche il governo americano, prima con George W. Bush e poi con Barack Obama, è stato costretto a entrare nel capitale delle banche e delle industrie automobilistiche e a finanziare un gigantesco pacchetto di stimolo dell'economia. Se i dati europei, la disoccupazione americana e le risposte dei governi occidentali segnalano una tendenza chiara del mondo libero, nel resto del pianeta la storia sembra confermare la bontà dell'esperienza cinese.

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Tags Correlati: America del Sud | American Enterprise Institute | Arthur Brooks | Asia | British Petroleum | Daniel Bell | Eurasia Group | Europa | Francis Fukuyama | George W. Bush | Kremlin Inc. | Margaret Thatcher | Prodotti e servizi | Ronald Reagan | Royal | Stati Uniti d'America | Tea | Vladimir Putin

 

Il capitalismo di stato non è soltanto quello cinese, anche se Pechino rappresenta un modello per molti paesi. C'è anche l'esperienza oligarchica russa, sintetizzata nella formula Kremlin Inc. e stabilizzatasi negli anni di Vladimir Putin dopo il "liberi tutti" successivo alla caduta dell'impero sovietico.


Definire il capitalismo di stato non è facile, ma più o meno è il sistema in cui il governo, non il settore privato, è il principale soggetto economico. Questa posizione dominante e spesso monopolista serve ai governi per creare ricchezza a fini politici, più che economici. Esempi di questo crescente modello politico si possono trovare in Africa (Egitto), nell'Europa orientale (Ucraina), in Asia (India), in America Latina (Brasile).
Le più grandi compagnie petrolifere del mondo non sono né la ExxonMobil né la Royal Dutch Shell, tantomeno la BP ingolfata al largo della Luisiana. Le principali compagnie saudite, russe, cinesi, iraniane, venezuelane, brasiliane e anche malesi - di proprietà dei rispettivi governi - sono più grandi delle maggiori multinazionali private. In totale, le compagnie statali controllano il 75% delle riserve di greggio della Terra. Brennan segnala che anche tre delle quattro maggiori banche per capitalizzazione sono controllate dallo stato. Il più grande operatore delle telecomunicazioni, invece, è di proprietà del governo di Pechino.


Il controllo delle risorse, delle telecomunicazioni e dei sistemi finanziari è un fenomeno appetito dai paesi dispotici o solo parzialmente liberi. Ma non è detto che il modello cinese abbia già vinto.
La guerra culturale è ancora aperta. In controtendenza, comincia a vedersi qualche segnale antistatalista: dalla rivolta popolare americana dei Tea Party, alle recenti critiche al keynesismo lanciate dell'economista liberal Jeffrey Sachs e dallo stratega della Casa Bianca clintoniana Bill Galston, fino alle nuove misure annunciate dal governo italiano. Negli anni 80 statisti come Margaret Thatcher e Ronald Reagan riuscirono a smantellare le fondamenta dell'allora solidissimo sistema dei blocchi contrapposti, cresciuto con la Guerra Fredda, ma anche a imporre il Washington consensus centrato sulle liberalizzazioni, sulle privatizzazioni e sulle deregolamentazioni. Thatcher e Reagan aprirono la strada alla nuova globalizzazione degli anni 90, il fenomeno politico, culturale e sociale che ha contribuito a creare il più ampio periodo di crescita globale e di benessere individuale della storia recente. Senza leadership coraggiose e visionarie come quelle di 30 anni fa c'è il serio rischio che, per una volta, l'apocalittica previsione contenuta nel titolo del saggio di Bremmer possa avverarsi.

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