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Pensioni rosa: ora la fase due

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2010 alle ore 10:15.
L'ultima modifica è del 12 giugno 2010 alle ore 08:04.

Perché desta tanta opposizione la richiesta europea, accolta giovedì dal Consiglio dei ministri, di equiparare a 65 anni entro il 2012 l'età di pensionamento di donne e uomini nel settore pubblico? È un'ingiunzione che offre alla politica una buona scusa per superare le ottuse resistenze nazionali e per andare più rapidamente nella direzione giusta: ossia contenere l'esorbitante spesa pensionistica e al tempo stesso favorire un'equiparazione non ipocrita delle condizioni di lavoro dei due sessi sia a casa sia sul posto di lavoro.

In realtà quel che stupisce è che il governo non abbia colto la palla al balzo per estendere l'equiparazione anche all'intero settore privato. E soprattutto preoccupa la decisione di devolvere le risorse risparmiate, su richiesta del ministro Mara Carfagna, a un non meglio specificato fondo vincolato ad "azioni positive" per le famiglie e le donne. Accadrà mai che i politici italiani decidano di usare un risparmio di spesa pubblica solo e semplicemente per ridurre subito le tasse dei cittadini, magari in questo caso le tasse sul lavoro delle sole donne?

Ma andiamo con ordine. Il pensionamento anticipato delle lavoratrici è oggi giustificato come "risarcimento" per i compiti di cura da esse svolti in famiglia durante l'intera vita. Ma questo risarcimento in realtà perpetua lo stesso circolo vizioso che vorrebbe eliminare. Non è "rispedendo" ai lavori di casa le donne a 60 anni o poco più che si assicura una più equa distribuzione del lavoro domestico tra mogli e mariti. Tra l'altro, è bene ricordare che il pensionamento anticipato femminile aveva in origine lo scopo di assicurare ai mariti l'assistenza delle mogli al momento del pensionamento, in un contesto in cui la differenza media di età tra i sessi al matrimonio era di circa cinque anni.

Le donne italiane lavorano molto a casa. Sono poco aiutate dai loro mariti (molto meno che in altri paesi europei come dicono precise statistiche) e quindi su di esse, assai più che sui loro partner maschi, pesa l'inefficienza dei servizi pubblici scadenti offerti dallo stato alle famiglie. Da questo squilibrio nella divisione familiare dei compiti derivano le differenze occupazionali e salariali tra donne e uomini nel mercato del lavoro. È quindi su questo squilibrio che bisogna in primo luogo agire.

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Tags Correlati: Consiglio dei Ministri | Mara Carfagna | Maria Ida Germontani | Pd | PDL | Previdenza

 

È perfettamente ragionevole chiedere alle lavoratrici di andare in pensione più tardi anche perché la loro vita attesa è maggiore di quella dei colleghi maschi, ma è difficile e ingiusto imporre questo onere alle donne senza prima aver creato le basi per un riequilibrio dei ruoli nella famiglia e nel mercato. Un modo semplice per farlo, e molto più trasparente del misterioso fondo voluto dal ministro Carfagna, c'è: combinare l'innalzamento dell'età di pensionamento delle donne con la proposta di riduzione delle imposte sul reddito da lavoro femminile da noi fatta in una serie di articoli su questo giornale e in un lavoro scientifico (Gender based taxation and the division of family chores).
Con questa combinazione di politiche la perdita di gettito per lo stato sarebbe relativamente contenuta (o addirittura nulla) perché le statistiche dimostrano che molte più donne lavorerebbero se tassate meno e, costando meno alle aziende, sarebbero da queste assunte e promosse con maggior frequenza. Inoltre l'aumento dell'età pensionabile farebbe risparmiare ulteriormente l'Erario. Il resto lo si potrebbe coprire con tagli di spesa e, perché no, con un leggero aumento impositivo sul lavoro maschile tale da ridurre le imposte totali per una famiglia se entrambi i coniugi fossero occupati. La teoria economica e l'analisi dei dati disponibili suggeriscono che questo è possibile.

Con un maggiore reddito disponibile le famiglie potrebbero, fra l'altro, permettersi di acquistare da privati quei servizi che faciliterebbero a entrambi i coniugi la conciliazione del lavoro in casa e nel mercato, senza bisogno che sia lo stato o il ministro Carfagna a decidere paternalisticamente cosa serve alle famiglie stesse. E quando i mariti arrivassero a "capire" che l'intera famiglia guadagnerebbe da una minore tassazione delle donne, diventerebbero più propensi ad aiutare le loro mogli in casa per consentire loro di lavorare nel mercato, se lo vogliono fare.

Non è fantascienza né fantapolitica. Due progetti di legge attualmente in Parlamento vanno esattamente nella direzione della nostra proposta. I primi firmatari sono rispettivamente la senatrice Maria Ida Germontani del Pdl e il senatore Enrico Morando del Pd: un'interessante e promettente convergenza bipartisan! I due progetti sono complementari e agiscono in modi diversi sulle detrazioni di imposta per favorire l'ingresso nel mercato del lavoro delle donne non occupate soprattutto al sud, e sulle aliquote per favorire le progressioni di carriera delle donne bloccate dai "soffitti di vetro" in tutte le aziende del paese.

Perché allora non estendere anche al settore privato l'equiparazione dell'età di pensionamento di donne e uomini combinandola con la detassazione del lavoro femminile oggetto di questi progetti? Avrebbe un evidente senso economico e renderebbe l'aumento dell'età pensionabile molto più accettabile da parte dell'opinione pubblica femminile e anche dei sindacati, preoccupati (a torto) di aprire una breccia nella diga che impedisce la riduzione della nostra enorme spesa pensionistica.
Insomma, le condizioni sono mature per offrire meno tasse a "tutte" le donne in cambio di una pensione procrastinata. Se non ora, quando?

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