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Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2010 alle ore 11:00.
L'ultima modifica è del 12 giugno 2010 alle ore 08:04.
«Ci hanno rubato un presidente ma ci hanno regalato un grande movimento di protesta e libertà» commentò dall'esilio Mohsen Sazegara, fondatore dei Pasdaran insieme all'Imam Khomeini, quando prese il via l'Onda Verde. Un anno dopo le contestate elezioni presidenziali del 12 giugno 2009, il 22 Khordad secondo il calendario persiano, l'Iran è un Paese ancora meno libero e più autoritario di prima per tre ragioni: la repressione generalizzata e al contempo mirata che ha decapitato il fronte riformista, l'incapacità dell'opposizione di sollevare una protesta incisiva, la sostanziale tenuta del sistema economico e del blocco sociale che regge da oltre 30 anni la repubblica islamica.
È anche mancata una concreta pressione esterna sul regime, nonostante i proclami occidentali. Anzi, Ahmadinejad è riuscito a trasferire sul piano internazionale le tensioni interne, grazie al programma nucleare. La questione atomica ha oscurato la “bomba democratica” e lo stesso sistema di alleanze del Medio Oriente – come dimostra il caso Turchia-Israele – ha subito scosse telluriche: nella regione ci si comporta come se l'Iran avesse già un'atomica, sia pure virtuale. Usa e Nato, presenti con le truppe in Iraq e Afghanistan, stringono in una morsa l'Iran ma per il momento sono loro sotto scacco. Le stesse sanzioni votate dall'Onu non avranno effetti significativi perché non colpiscono né il settore energetico né quello commerciale. Una conferma è venuta dal viaggio di Ahmadinejad a Pechino: la Cina vanta un interscambio con l'Iran di oltre 35 miliardi di dollari - saranno 50 nel 2012 - superiore al volume d'affari di Teheran con l'Europa. L'unica sanzione efficace può venire dal mercato: l'oro nero paga tutto, dalle armi al “welfare state” islamico. Se crolla il greggio anche l'economia-Pasdaran va in fibrillazione, come negli anni '90. Allora il presidente riformista Khatami fallì la transizione democratica per mancanza di determinazione ma anche perché il greggio, a 10 dollari al barile, viaggiava su quotazioni da incubo per un Paese che dipende per l'80% dall'export di petrolio.
Ma quello che accade in Iran non si può liquidare in un'analisi fredda. Gli uomini e le donne che si sono immolate come la giovane Neda Agha Soltan continuano a credere, nonostante il fallimento, che l'Iran può cambiare. «Noi non riconosciamo il governo attuale, al potere con le truffe elettorali, se Mir Hussein Mousavi e Mehdi Karrubi rinunciano alle manifestazioni di piazza è perché temono un bagno di sangue» dice Zahra Rahnavard, la moglie di Mousavi che fa arrivare questo messaggio da Teheran attraverso un interprete. Il regime stesso nei mesi post-elettorali ha temuto il peggio. «La rivolta è durata non più di otto mesi ma ha costituito una minaccia più grande della guerra di otto anni imposta da Saddam» afferma il generale Alì Jafari, comandante delle Guardie della Rivoluzione.