Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 15 giugno 2010 alle ore 08:44.
Come ci raccontano i fatti del Belgio, anche agli stati democratici può capitare di estinguersi. Senza strepiti né conflitti violenti, ma scegliendo quasi consensualmente la strada della dissoluzione di vincoli fondati sulla legittima convenienza ben più che sulla storia o sull'etnia. Il vincitore delle Fiandre, il giovane leader della «Nuova Alleanza Fiamminga» Bart De Wever, ha descritto uno scenario successivo al voto in cui il Belgio potrebbe «evaporare gradualmente». Vedremo se le cose andranno effettivamente così. Ma nel frattempo si fa notare un fenomeno che è tutto il contrario dei secessionismi virulenti a cui ci siamo abituati negli ultimi anni, anche in Italia, dove le piattaforme politiche dei partiti delle «piccole patrie» nascevano da una miscela di percezione di insicurezza, xenofobia e rivendicazione di un rinnovato legame democratico e fiscale tra eletti ed elettori. È un fenomeno nuovo che parla anche a noi. E per questo sbaglieremmo a considerare il focolaio fiammingo come l'ennesima stranezza di un piccolo e bizzarro paese, così come non sembra sufficiente guardare al rischio della frattura del Belgio come a «un evento irrazionale provocato da incompatibilità e bisticci che un mediatore di buon senso avrebbe potuto affrontare e risolvere» (come ha scritto Sergio Romano sul Corriere della Sera di ieri). Quel caso rivela infatti un rischio nel quale anche l'Italia, come gran parte dell'Europa, è immersa fino al collo.
Perché attraversata da spinte centrifughe ben diverse da quelle spesso rumorose che il nostro continente ha ascoltato dopo il 1989. Non più violente rivendicazioni sciovinistiche a sfondo etnico e sicuritario, ma smottamenti silenziosi verso aggregazioni macro-regionali di nuovo tipo. Entità che superano nei fatti gli attuali confini nazionali, talvolta mettendoli in crisi come nel caso belga, e che sono tenute insieme dalla condivisione di interessi economici transfrontalieri più forti dei vincoli statuali.
Si tratta di entità e legami che si amalgamano in modi del tutto nuovi e rispetto a cui l'Europa rischia di rivelarsi un contenitore solo geografico, e dunque superfluo, soprattutto in uno scenario economico dal quale è assente la prospettiva della crescita. Non c'è forse bisogno di scomodare Ernest Renan e la sua definizione della nazione come "plebiscito quotidiano" per riconoscere le minacce che la fase recessiva pone in questi mesi ai termini del patto comunitario e alle modalità con le quali ciascun paese europeo partecipa all'Unione Europea. Esaurita la fase gloriosa del "never again", la stagione nella quale il cantiere europeo era mosso dall'aspirazione a rimuovere una volta per tutte gli effetti catastrofici dei nazionalismi continentali, gli ultimi decenni dell'impresa comunitaria hanno visto quel plebiscito rinnovarsi ogni giorno nella prospettiva comune della crescita. Anche e soprattutto nelle fasi di maggiore difficoltà economica, dove ogni stretta era bilanciata da uno scenario di crescente integrazione. Lo ha scritto Wolfgang Münchau sul Financial Times (si veda l'articolo in pagina), quando ha ricordato come le pesantissime scelte di austerità operate da François Mitterrand nella Francia dei primi anni Ottanta fossero compensate dal «presunto beneficio di un futuro economico comune».