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Questo articolo è stato pubblicato il 29 giugno 2010 alle ore 09:23.
Benedetto XVI conosce in profondità la cultura occidentale. Se si è deciso a istituire un nuovo organismo vaticano per evangelizzarla, non gli mancano certo ragioni. Non si tratta di serrare le fila di fronte alla dispersione e alla caduta. Molto più, si tratta di capire la crisi e di offrire ragioni di vita e di speranza a chi sembra non averne più. Al di là delle forme e dei modi in cui agirà il nuovo strumento di cui si dota la Chiesa, le domande a cui vorrebbe rispondere mi sembra meritino considerazione da parte di tutti, credenti e no.
Dove si trova oggi la coscienza occidentale agli inizi del terzo millennio, dopo che la parabola delle utopie ideologiche della modernità è approdata alla condizione di disincanto e di crisi del cosiddetto "post-moderno"? Una metafora tratta dalla tradizione ebraica rende bene la condizione in cui ci troviamo: «L'esilio vero d'Israele in Egitto fu che gli Ebrei avevano imparato a sopportarlo» (da I racconti dei Chassidim, a cura di M. Buber). L'esilio non comincia quando lasci la tua casa, ma quando non hai più nel cuore la nostalgia della patria.
L'indifferenza, la mancanza di passione per la verità e il senso che essa può dare alla vita costituiscono la vera debolezza della coscienza occidentale nell'epoca cosiddetta "post-moderna": se la ragione adulta e illuminata della modernità pretendeva di spiegare tutto, la post-modernità, inaugurata dalla crisi dei modelli ideologici conseguente alla violenza da essi stessi prodotta, si offre anzitutto come tempo che sta al di là della totalità luminosa dell'ideologia, tempo post-ideologico o del lungo addio, stagione di rinuncia e di declino rispetto alle presunzioni totalizzanti dell'idea.
Dove per la ragione adulta tutto aveva senso, per il pensiero debole della condizione post-moderna nulla sembra avere più senso. È tempo di naufragio e di caduta.
È tempo di povertà, che – come osservava Martin Heidegger – è "notte del mondo" non a causa della mancanza di Dio, ma a motivo del fatto che gli uomini non soffrono più di questa mancanza: la povertà, che ci rende malati, è l'indifferenza, il non soffrire più dell'infinito dolore dell'«assenza di patria», la perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umanoPerciò, in questo tempo di penuria, sono necessari i poeti, che tengano sveglio il desiderio dell'infinito e ultimo altrove. Sta forse qui la risposta all'interrogativo, retorico e struggente, di Hölderlin: «Perché i poeti nel tempo della povertà?».