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Commenti e Inchieste

L'ideologia è soltanto un vecchio arnese

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Questo articolo è stato pubblicato il 18 luglio 2010 alle ore 08:06.

Monetaristi, keynesiani o marxisti? No, solo economisti. Il lettore del Sole 24 Ore che abbia seguito il dibattito tra gli economisti potrebbe essere piuttosto sconcertato e trarne una sola conclusione: gli economisti sono divisi in tribù e non si mettono d'accordo su nulla. In una recente lettera pubblicata sul Sole, 100 economisti italiani si sono espressi negativamente sulle politiche di austerità dei governi europei. Alcuni economisti che lavorano o hanno lavorato in università estere come Alberto Alesina e Roberto Perotti (24 e 26 giugno) hanno espresso considerazioni assai diverse e Alberto Bisin e Michele Boldrin (27 giugno) hanno criticato la lettera evidenziandone le incoerenze logiche. Le controrepliche non si sono fatte attendere. In un articolo del 14 luglio, Il Sole 24 Ore ha sintetizzato quello che gli pare essere lo stato della disciplina economica classificando molti economisti italiani in innumerevoli scuole di pensiero: liberisti, post-keynesiani, marxisti, monetaristi, sraffiani, neoclassici.
Se questo fosse lo stato della scienza economica nel 2010, sarebbe davvero deprimente. Che scienza è quella in cui ci si distingue in scuole, peraltro chiaramente legate a opinioni politiche? Per fortuna le cose non stanno così. In tutti i dipartimenti di economia del mondo in cui si fa ricerca scientifica, da Harvard a Stanford alle migliori scuole europee, gli economisti non si distinguono in base a faziose visioni del mondo, ma solo in base alla specializzazione scientifica. Vi sono gli economisti teorici che sviluppano modelli, ad esempio di teoria dei giochi, per studiare le interazioni tra agenti economici; quelli empirici che lavorano con i dati e studiano specifici problemi come, ad esempio, l'impatto di una riforma sull'offerta di lavoro; gli econometrici, che affinano le metodologie statistiche per analizzare i dati; i macroeconomisti, che studiano il ciclo e la crescita economica; gli economisti finanziari che si occupano dei mercati e delle istituzioni finanziarie; gli economisti sperimentali, che sottopongono i modelli teorici a verifica in laboratorio; e tanti altri specialisti.

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La scienza economica progredisce con ricercatori che propongono nuove teorie e altri che le sottopongono a verifica empirica. Così si fa in economia, così come si fa in tutte le scienze. I ricercatori di economia cercano solo di capire i fenomeni economici con gli strumenti matematici e statistici che negli anni hanno sviluppato, non vogliono proporre una visione del mondo. In macroeconomia, dove negli anni 70 si dibatteva tra keynesiani e monetaristi, oggi le differenze, quando ci sono, sono legate principalmente ad aspetti tecnici dei modelli che si utilizzano. C'è allora un accordo completo su tutte le questioni? Certo che no, c'è un dibattito scientifico che va avanti e vengono espresse valutazioni diverse. Negli Stati Uniti tutti hanno notato le differenze di opinioni sulla crisi economica e sui conseguenti interventi governativi tra economisti come Paul Krugman e altri come Eugene Fama. Questo dibattito scientifico deriva dal fatto che si fa fatica a scoprire la verità, semplicemente perché il ciclo economico, la crescita, le crisi finanziarie, etc. sono fenomeni molto complicati dei quali abbiamo ancora una comprensione tutt'altro che perfetta.
Quando si passa dalla comunità scientifica internazionale al caso italiano, la situazione si presenta alquanto diversa. Nelle facoltà di economia di vari atenei italiani ci sono ancora marcate differenze e molti economisti, soprattuto quelli più anziani, ancora ostentano fieramente appartenenza a una scuola di pensiero. Piuttosto diffusi, per esempio, sono gli "sraffiani", economisti che hanno studiato di solito a Cambridge decenni fa, allievi più o meno direttamente di Piero Sraffa. Purtroppo per loro, la scienza economica da allora è andata avanti e oggi le tesi di Sraffa (la cui opera principale è del 1960) non sono più parte del dibattito scientifico. Gli sraffiani oramai esistono solo in Italia, in qualche oscuro dipartimento inglese e forse in qualche università dell'India.
Lo stato del dibattito italiano è preoccupante. Perché quando le posizioni di uno studioso sono dettate dall'appartenenza a una scuola di pensiero, non si fa analisi scientifica, nella migliore delle ipotesi si fa studio della storia del pensiero economico, nella peggiore si fa mera propaganda politica. L'appello dei 100 economisti ne è un lampante esempio: si basa su teorie marxiste (come già spiegato da Bisin e Boldrin), a cui la comunità scientifica internazionale non dà alcun valore, semplicemente per lanciare un messaggio politico. Non a caso l'appello ci spiega all'inizio che «l'attuale instabilità della Unione monetaria costituisce l'esito di un intreccio ben più profondo tra la crisi economica globale e una serie di squilibri in seno alla zona euro, che derivano principalmente dall'insostenibile profilo liberista del Trattato dell'Unione». È questa un'affermazione scientifica? Ovviamente no, è solo una dichiarazione ideologica. Gli economisti che si identificano con scuole economiche vivono nel passato perché i paradigmi ai quali si ispirano non hanno fatto alcun progresso da decenni. Non a caso, due di questi economisti, Canale e Realfonzo (15 luglio), invitano noi colleghi a rileggere Keynes. Come se un fisico o un chimico invitassero i colleghi a leggere libri di due secoli fa. Se ne sono fatte di scoperte scientifiche nel frattempo, in fisica come in chimica come in economia. In alcune facoltà di economia italiane ci sono bravissimi economisti che fanno ricerca scientifica di alto valore, dalla Bocconi di Milano all'Università di Napoli. Solo concorsi universitari basati su criteri scientifici internazionali permetterano al nostro paese di avere sempre più giovani studiosi di economia che facciano ricerca come la si fa nei migliori dipartimenti di economia del mondo. La smetteremo così anche in Italia di essere marxisti o monetaristi e saremo solo economisti.

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