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Scuola che vai, test che trovi

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Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2010 alle ore 08:33.
L'ultima modifica è del 20 luglio 2010 alle ore 08:03.

È stagione di test. Ha dato l'avvio il debutto dell'esame Invalsi per gli studenti delle medie, seguito dal terzo compito della maturità; tra poco toccherà alle prove di ammissione ai corsi universitari, le più controverse, mentre il ministero ha appena annunciato un programma su qualità e merito che li prevede anche all'inizio dell'anno scolastico. L'ampliamento del numero e del tipo dei test non sembra però modificare sostanzialmente, anno dopo anno, i termini del dibattito, che resta polarizzato tra grandi entusiasmi e perplessità spesso preconcette.


Conviene prima di tutto distinguere tra vantaggi e limiti dei test in quanto tali e i problemi contingenti legati alla loro realizzazione. Domande incongrue o peregrine a parte, il principale tra questi ultimi è che non esiste ancora un meccanismo di certificazione e comparazione dei test locali, cioè quelli predisposti direttamente da singoli atenei o addirittura singoli dipartimenti o corsi di laurea. I test funzionano davvero quando sono sviluppati e gestiti da organizzazioni non profit (per esempio, consorzi tra università) che si dedicano a tempo pieno e con continuità specificamente a svilupparli, ponderarli, compararne negli anni esiti e predittività. Buoni lavori sono stati fatti, in Italia, nell'ambito della medicina e dell'architettura, ma siamo ancora lontani dagli standard delle più consolidate internazionali. Resta poi irrisolto un problema solo italiano: tutti i candidati a medicina svolgono lo stesso test lo stesso giorno, ma possono competere per una sola sede. Ne consegue che con lo stesso punteggio ottenuto nello stesso test si viene esclusi da una facoltà mentre si potrebbe comodamente entrare in un'altra.


I problemi di fondo sono però di ordine culturale e politico. Il primo è chiaramente legato alla forte asimmetria che caratterizza oggi l'accesso all'università: da un lato pochi corsi a numero chiuso, magari molto selettivi, come medicina, dove il rapporto tra posti disponibili e concorrenti supera 1 a 10; dall'altro, una massa di corsi ad accesso non solo illimitato, ma del tutto incontrollato quanto ai requisiti. Eppure è evidente che ogni corso, di laboratorio o meno, ha una capienza ottimale ed esige una specifica preparazione in alcune materie. Lasciar iscrivere tutti dappertutto, retaggio della dissennata "liberalizzazione" del 1969, non è altro che una forma di irresponsabilità collettiva cui si deve imputare una parte notevole del patologico tasso di abbandono di cui soffrono i nostri atenei. I test "diagnostici", quelli che aiutano lo studente a valutare le proprie attitudini senza vincolare la possibilità di iscriversi o meno, sono un passo nella direzione giusta, ma resta prioritario riaprire un dibattito serio su quale modello di accesso garantisce davvero maggiori possibilità anche a studenti che provengono da contesti meno agiati.

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Tags Correlati: Italia | Ocse | Scuola e Università

 


Il secondo problema è legato specificamente ai test come modalità di valutazione. L'Italia sconta remore antiche quando si parla di valutazione, standardizzazione dei risultati e terzietà dell'esame, anche a lasciar perdere le ansie sul "nozionismo" riesumate proprio nelle polemiche seguite al test Invalsi. Ci sono voluti molti anni per introdurre un sistema di valutazione della ricerca universitaria, e molti docenti, soprattutto in alcuni settori, sono ancora convinti che valutare sia impossibile, o ingiusto, o entrambe le cose insieme; sul piano della didattica - poi - il modello principe di esame resta quello orale svolto di fronte a un singolo docente, che non garantisce la comparabilità dei risultati non si dica a livello nazionale, ma neppure locale (ben altre garanzie offre un esame scritto e anonimo). Da questo punto di vista i test possono rappresentare un utile correttivo introducendo nel sistema un elemento di terzietà, soprattutto ora che l'Ocse si accinge a sviluppare test internazionali per valutare l'apprendimento anche a livello universitario, come già fanno per le scuole i test Pisa.


Attenzione, in ogni caso, a esaltare acriticamente le virtù dei test. Neppure negli Stati Uniti, dove il famoso Sat nasce oltre un secolo fa proprio per ovviare a problemi di comparabilità dei risultati scolastici tra stati ampiamente autonomi in materia educativa, e dove si è sviluppato un know how eccellente, le università si sognerebbero di demandare tout court la scelta dei propri studenti a un test standard. Il risultato ottenuto nel Sat incide molto sul processo di ammissione, che però include dossier, testi scritti, curricula, talora un colloquio. Anzi: alcuni atenei oggi non richiedono più il Sat e le polemiche legate alla sua impostazione metodologica e soprattutto al timore che favorisse alcuni gruppi etnici e culturali più di altri, hanno portato nel 2005 a una massiccia revisione, anche perché la minaccia di abbandonarlo si stava diffondendo.
Ai test non dobbiamo chiedere né più né meno di quello che possono dare. Non sono una panacea, ma restano uno strumento utile che nel nostro paese ha ancora spazio di crescita e miglioramento.

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