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Questo articolo è stato pubblicato il 21 luglio 2010 alle ore 08:31.
L'ultima modifica è del 21 luglio 2010 alle ore 08:03.
Un milione e 400mila persone hanno messo firma e faccia dietro tre quesiti referendari che mirano ad annullare gli effetti del cosiddetto decreto Ronchi, con cui l'attuale governo ha provato a introdurre elementi di concorrenza nei servizi pubblici locali. Sono firme che spiegano almeno in parte le straordinarie difficoltà che aveva incontrato il ddl Lanzilotta nella passata legislatura. Anche allora, proprio sull'acqua il centro-sinistra andò ad arenarsi.
Per l'acqua “bene comune”, si è sviluppato un consenso vastissimo e spontaneo: una partecipazione così impressionante non si spiega solamente con l'efficienza della macchina organizzativa di chi, essendo fuori dal Parlamento, deve inventarsi campagne per restare vivo. Il lessico politico degli anti-liberalizzatori è accattivante. Chi difende il decreto Ronchi lo fa sulla base di ragioni di efficienza. Loro parlano di un diritto umano fondamentale. È facile fare le barricate «per il bene comune». Ma ogni tanto, il bene comune può essere il peggior nemico del buon senso.
Chi infatti abbia un po' di buon senso non può difendere uno status quo che ci vede, sulla media nazionale, prelevare 165 litri d'acqua per erogarne 100. I dati Istat sulla dispersione idrica fotografano da anni una situazione preoccupante, soprattutto in alcune regioni del Sud, dove per distribuire 100 litri di acqua debbono esserne addirittura captati altri 100. Perché l'acqua sia un «diritto fondamentale», ovvero perché l'accesso alle risorse idriche sia effettivamente a disposizione di tutti, è davvero indispensabile che essa venga sprecata così?
Il ciclo dell'acqua è un ciclo chiuso: quanti si aggiudicheranno il servizio tramite gara si impegneranno a raccogliere l'acqua, renderla potabile, portarla ai rubinetti e smaltirla dopo averla depurata. La logica della gara rispetto all'affidamento in house introduce logiche di trasparenza e di accountability che dovrebbero consentire un miglior controllo sugli affidatari. Ai privati starebbe fare profitto sulla riduzione dello spreco, ponendo in essere nuovi investimenti, rendendo più solide le reti, assicurando una gestione più imprenditoriale e oculata: tutto questo, “gestendo” pro tempore una risorsa pubblica.