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Commenti e Inchieste

Derivati visti in trasparenza

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Questo articolo è stato pubblicato il 22 luglio 2010 alle ore 08:32.
L'ultima modifica è del 22 luglio 2010 alle ore 08:06.

L' approvazione della riforma finanziaria americana, promulgata ieri da Obama, ha riacceso la polemica sulla regolamentazione, ma spesso si continua a perdere di vista il problema fondamentale, cioè qual è il contributo effettivo del settore finanziario all'attività produttiva e al benessere generale. È giusto ricordare l'importanza dell'innovazione finanziaria e mettere in guardia contro il rischio di ingabbiare le banche in un sistema soffocante di regole. Ma si tratta pur sempre di luoghi comuni, che devono essere messi alla prova di un'analisi obiettiva dei costi e benefici dello sviluppo finanziario degli ultimi decenni.
Un contributo a questo proposito viene da uno studio recentissimo della London School of Economics (www.futureoffinance.org.uk) cui hanno contributo i vertici della Fsa e della Bank of England, accademici come Charles Goodhart e John Kay e opinionisti come Martin Wolf. Diversi studi aiutano a mettere in luce i punti deboli dei paradigmi teorici utilizzati per analizzare i fenomeni finanziari. Si dimostra così che la teoria economica dominante (seguita nell'accademia e nella regolamentazione) ha guardato ai fatti finanziari attraverso lenti deformanti come l'ipotesi che i mercati sono fondamentalmente efficienti e in grado di risolvere la distribuzione asimmetrica delle informazioni.
Alla prova dei fatti, ci siamo scontrati con una realtà affatto diversa. L'innovazione finanziaria ha prodotto strumenti per trilioni di dollari, ma i loro prezzi non riflettevano il rischio intrinseco e quindi sono alla fine crollati miseramente, dopo peraltro aver sorretto per vari anni i profitti bancari più alti della storia.
Dunque, la crescita del sistema finanziario (e le innovazioni che la determinano) non è legata univocamente all'aumento del benessere generale, ma si risolve in parte in un'attività fine a se stessa (e ai profitti bancari). Un'autentica "estrazione di rendite" che si manifesta oltre che nei livelli dei profitti anche nella continua crescita delle remunerazioni del settore. I contributi di Adair Turner, presidente della Fsa, e Andrew Haldane, responsabile per la stabilità finanziaria alla Bank of England, sono particolarmente illuminanti su questi aspetti.

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Tags Correlati: Adair Turner | Andrew Haldane | Charles Goodhart | Financial Stability Board | FSA | John Kay | Lse | Volcker

 

Per quanto riguarda le implicazioni di policy, lo studio della Lse non offre una soluzione univoca e suggerisce, oltre che il rafforzamento patrimoniale delle banche, due soluzioni fondamentali. La prima è la necessità di un livello sovranazionale di regolamentazione e di condivisione dei principi fondamentali su cui si deve realizzare la vigilanza prudenziale sui sistemi finanziari in termini macro e microeconomici. Non si tratta di una pura indicazione astratta, perché Turner presiede anche il gruppo di lavoro del Financial Stability Board che riferirà al G20 di novembre e non manca di ricordarlo in sede di conclusioni.
La seconda proposta riguarda la necessità di separare l'attività di banca ordinaria da quella di banca d'investimento (la cosiddetta Volcker rule) in forme ancora più severe di quanto previsto dalla riforma americana, i cui dettagli (fondamentali ovviamente) sono affidati alle norme secondarie che saranno emanate dai regolatori. Molti dubitano dell'efficacia di questa misura e pochi pensano che sia possibile realizzarla in forme ancora più severe di quanto faranno gli Stati Uniti. Ma soprattutto questa proposta non sembra la conseguenza necessaria dell'analisi contenuta nello studio della Lse. Se il sistema finanziario ha potuto affiancare alla tradizionale attività di credito un'autentica estrazione di rendite, la soluzione non può risiedere nella separazione gordiana di queste due anime. La seconda, che poco contribuisce allo sviluppo generale, rischierebbe di continuare indisturbata.


Occorre invece intervenire sulle cause e in particolare sull'opacità dei mercati in cui si tratta l'enorme massa dei titoli emessi e dunque rendere finalmente trasparente l'informazione che essi trasmettono. La crisi ha avuto effetti così disastrosi anche perché le banche, sotto l'occhio complice o distratto dei regolatori, hanno trattato i titoli dell'innovazione finanziaria in circuiti da loro stesse organizzati (dunque con mostruosi conflitti d'interesse) e senza curarsi di assicurare le condizioni fondamentali di liquidità e trasparenza. Lungi dal risolvere le asimmetrie informative, le banche ne hanno creato di nuove e più dannose.
La riforma americana offre un contributo in questa materia, perché prevede che i derivati standardizzati debbano essere scambiati su mercati regolamentati o comunque più trasparenti perché dotati di controparte centrale. Ma ancora una volta, mancano dettagli: in questo caso la definizione di "standardizzati" è lasciata alla normativa secondaria e c'è da scommettere che le pressioni degli operatori finiranno per lasciar fuori una grande quantità di titoli.
Come ha messo in evidenza Carlo Bastasin (sul Sole 24 Ore del 17 luglio) la trasparenza dell'informazione è il protopostulato dell'efficienza dei mercati finanziari. Ma prima ancora della trasparenza contabile bisogna intervenire sull'anello precedente della catena, e cioè la trasparenza e la significatività dei prezzi dei trilioni di titoli oggi in circolazione. Se manca questa, la rappresentazione contabile diventa un puro esercizio di fantasia.
Vari contributi, come quello della Lse, stanno aiutando a definire i paradigmi teorici necessari per costruire la nuova regolamentazione e per respingere le resistenze dei banchieri che non vogliono cedere nemmeno un centimetro dei terreni conquistati. Sapranno le soluzioni effettive essere coerenti con queste premesse? I risultati non sono finora troppo incoraggianti e il tempo che ci separa da un appuntamento cruciale come il G20 di novembre si fa sempre più breve.

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