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Il Sud e quindici anni al macero

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Questo articolo è stato pubblicato il 22 luglio 2010 alle ore 08:39.
L'ultima modifica è del 22 luglio 2010 alle ore 08:06.

Benché la questione meridionale stenti a raccogliere attenzione nel dibattito sulla politica economica, il Rapporto annuale della Svimez ricorda che l'onda della crisi si sta abbattendo in modo particolarmente severo sul Sud. Il sistema produttivo è in ginocchio, al punto che nel 2009 il valore aggiunto del manifatturiero si è ridotto di quasi il 17% e le esportazioni sono calate di quasi un terzo, scivolando ad appena l'8% del totale italiano. Non meraviglia, pertanto, che la perdita di posti di lavoro nel Mezzogiorno superi quella registrata nel resto d'Italia, con allarmanti ripercussioni sulle condizioni sociali.

Mentre, nel Centro-Nord si lotta pervicacemente contro la crisi, il Mezzogiorno non ce la fa e perde terreno.
Per inquadrare meglio i caratteri della crisi produttiva al Sud sono utili i dati forniti dallo stesso Rapporto Svimez sulle tendenze di più lungo periodo. Il dualismo in Italia tende ad accentuarsi. Basti pensare che negli ultimi otto anni il valore del Pil meridionale ha rappresentato una quota costantemente decrescente rispetto al Pil del Centro-Nord. E se questo non sempre ha prodotto un aumento della divergenza tra i tassi di crescita del Pil pro capite, ciò è dipeso solo dalla riduzione della popolazione meridionale, dovuta all'imponente flusso migratorio in uscita che negli ultimi venti anni ha interessato 2,4 milioni di persone.
Inoltre, gli studi a disposizione mostrano che nessuna delle ataviche strozzature allo sviluppo del Mezzogiorno risulta superata. In particolare per quel che riguarda il tessuto produttivo locale, che continua a essere caratterizzato dalla presenza di imprese molto piccole, spesso attive nei settori del made in Italy, che utilizzano tecnologie non avanzate. Imprese che continuano a puntare su una competitività da costi, benché ormai questa strategia abbia mostrato tutti i suoi limiti.


Sotto questo punto di vista, si registra un clamoroso fallimento della cosiddetta nuova programmazione per il Mezzogiorno, sperimentata negli ultimi 15 anni. È a tutti nota la filosofia che ha ispirato questa stagione di interventi per il Mezzogiorno e gli strumenti della programmazione negoziata. L'idea era quella di voltare pagina rispetto al dirigismo e al centralismo dell'intervento straordinario e procedere con meccanismi di incentivazione bottom up. In tal modo - professavano alcuni miei colleghi - anziché calare modelli di sviluppo dall'alto, si sarebbero premiate le vocazioni locali, dando slancio all'imprenditoria del posto e attivando motori di sviluppo endogeno.

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Tags Correlati: Imprese | Italia | Sud

 

In pratica, abbiamo assistito a una polverizzazione della spesa che non ha inciso sul tessuto produttivo (se non per il sostegno indiretto alla domanda) e si è tradotta in un meccanismo assistenziale di spesa a pioggia, con derive clientelari e d'intermediazione impropria, che ha contribuito a ingessare ulteriormente il sistema produttivo meridionale. Uno spreco di risorse certo non inferiore a quello registrato negli anni peggiori dell'intervento straordinario, che pure aveva lasciato alcuni risultati tangibili sui territori.


Occorre dunque prendere atto che per uscire dal tunnel meridionale e rilanciare meccanismi di convergenza economica nazionale occorre altro. A riguardo, c'è da osservare che secondo alcuni il Mezzogiorno ha avuto in questi anni un eccesso di risorse. Si tratta di una tesi priva di fondamento: la spesa pubblica pro capite nel Mezzogiorno non è certo più alta rispetto al Centro-Nord e l'obiettivo di portare la quota della spesa in conto capitale al 45% del totale è stato disatteso (siamo scesi a meno del 35%). Per di più, negli ultimi due anni il governo ha tagliato il fondo per le aree sottoutilizzate (secondo la Svimez addirittura per 26 miliardi). È largamente prevedibile che la politica di austerità e i tagli alla spesa pubblica ostacoleranno una ripresa dell'economia meridionale, se non altro per gli effetti restrittivi sulla domanda aggregata. Al tempo stesso, l'idea che il taglio delle risorse e un più diretto collegamento a livello locale tra entrate e spese pubbliche siano garanzia di un uso più efficiente delle risorse lascia perplessi. Il punto è che occorrerebbe voltare pagina rispetto alla nuova programmazione.


Per il salto tecnologico e dimensionale di cui hanno bisogno le imprese del Mezzogiorno servirebbe una strategia di politica industriale adeguatamente finanziata, capace di guardare ben al di là degli assetti (e degli interessi) attuali della piccola imprenditoria locale. Una nuova strategia di politica industriale che recuperasse un disegno di programmazione dello sviluppo economico e territoriale dovrebbe raccogliere l'interesse della parte più viva e lungimirante dell'imprenditoria e del mondo del lavoro.

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